Le aule dei tribunali appaiono sempre meno inclini ad acconsentire a generosi assegni di mantenimento, non di rado superiori alle capacità del soggetto onerato, che di norma è rappresentato dall’uomo, soprattutto se si tratta del mantenimento di donne ancora giovani e, di conseguenza, abili al lavoro.
E’ stata proprio la Corte di Cassazione che con una recente sentenza ha segnato uno spartiacque tra le situazioni di effettivo bisogno della donna, in cui l’assegno di mantenimento è validamente giustificato, e quelle in cui invece non lo è. La Suprema Corte ha così stabilito che la giovane donna che è in grado di reperire mediante la propria occupazione il reddito necessario a godere del medesimo tenore di vita mantenuto durante il matrimonio, non ha diritto al mantenimento.
Persino lo svolgimento di un’attività saltuaria potrebbe rilevare come motivo valido per richiedere la revisione del mantenimento e azzerarne l’assegno. Inoltre, ed è questa forse la novità più rilevante, l’onere della dimostrazione della “difficoltà economica” e della “impossibilità a procurarsi un reddito” ricade direttamente sulla donna e non più sul marito.
Ma come avviene il calcolo dell’assegno di mantenimento?
La Corte stabilisce che, ai fini dell’accertamento del diritto all’assegno divorzile, intervengono due distinte fasi:
1) nella prima, il giudice accerta l’eventuale inadeguatezza dei mezzi economici del soggetto che chiede il mantenimento per garantirsi lo stesso tenore di vita rispetto a quello goduto in costanza di matrimonio. Non soltanto il reddito della famiglia pre-divorzio risulta il parametro al quale fare riferimento, ma anche quello che presumibilmente sarebbe scaturito se fosse proseguito il matrimonio.
2) Nella seconda fase, il giudice procede poi a quantificare l’importo dell’assegno, tenendo conto delle condizioni e del reddito dei coniugi, delle motivazioni alla base della decisione e dell’apporto economico dato da entrambi i membri alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio, singolo e comune.
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