La polemica scatenata tra i sindacati e gli imbarazzi dentro Palazzo Vidoni dovuti all’esortazione del Ministro Fornero a non creare un dualismo tra dipendenti pubblici e privati, in merito alla disciplina dei licenziamenti, ha molto di sorprendente.
In primo luogo, perché oggettivamente si discetta del nulla. Ancora, tutti ignorano o fingono di ignorare che nel testo unico che disciplina il lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, il d.lgs 165/2001, l’articolo 51, comma 2, estende espressamente al lavoro pubblico l’integrale applicazione della legge 300/1970, lo Statuto dei lavoratori. Con tanto di articolo 18. Dunque, qualsiasi modifica apportata dalla riforma-Fornero all’articolo 18 medesimo non può che automaticamente riverberarsi anche nel lavoro pubblico.
Dunque, i termini della questione sono esattamente inversi rispetto a come la si pone: perché i dipendenti pubblici risultino estranei alla nuova disciplina del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, occorrerebbe introdurre una norma nel d.lgs 165/2001 che deroghi all’attuale totale applicazione dell’articolo 18.
In altre parole: la tante volte richiamata necessità di “armonizzazione” tra lavoro privato e pubblico dovrebbe riguardare questioni connesse al lavoro flessibile, perché vi sono, tra sistema privato e pubblico, insuperabili asperità che non consentono di estendere sic et simpliciter al pubblico discipline lavoristiche connesse al lavoro flessibile. Per quanto riguarda, invece, il licenziamento, il Ministro Patroni Griffi, con la riforma del d.lgs 165/2001 può solo creare una “disarmonia” tra pubblico e privato, escludendo i dipendenti pubblici dalle nuove regole (vedremo quali saranno) del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Non si è preso ancora atto che l’articolo 18 non disciplina i motivi del licenziamento, ma regolamenta la procedura processuale riguardante l’annullamento dell’atto. Oggettivamente, non si capisce quale sarebbe la ratio di una differenziazione tra lavoratori pubblici e privati, anche in relazione alla disposizione scolpita nell’articolo 3, comma 1, della Costituzione: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.
L’arroccamento sindacale e, in parte, di Palazzo Vidoni nei confronti di un trattamento della tutela giudiziale da licenziamento illegittimo pare testimoniare che, a ben vedere, le cose non stiano esattamente come la citata norma costituzionale auspica.
Facciamo una breve divagazione, per esemplificare. Di recente, molte sezioni regionali della Corte dei conti sono state investite dai comuni del problema se sia possibile riconoscere ai dipendenti progressioni orizzontali (cioè aumenti contrattuali9 a valere sul 2010, anche successivamente alla manovra estiva 2010, che ha congelato le retribuzioni, come uno tra i rimedi alla crisi finanziaria per ridurre la spesa pubblica. In merito, la Sezione regionale di controllo per il Veneto, col parere 393/2011 ha statuito: “ai sensi delle disposizioni di cui all’art. 9, comma 21, del D.L. 31 maggio 2010 n. 122, le amministrazioni locali non possano dar luogo nell’anno in corso a progressioni orizzontali, con effetti economici, a decorrere dal 1 gennaio 2010, a seguito di accordi decentrati stipulati nell’anno 2011 o in presenza di una mera preintesa a detti accordi”.
Come si nota, allora, esiste un dualismo pronunciatissimo tra lavoro pubblico e privato. Le imprese e le industrie sono, in questi mesi, in una negoziazione decentrata gravosissima, nella quale all’ordine del giorno sono misure di riduzione di premi e di stipendi, ma anche e troppo spesso accordi per individuare chi va in cassa integrazione o per disciplinare licenziamenti collettivi. E mentre le imprese contrattano in queste condizioni disastrose, nel settore pubblico le piattaforme del giorno della contrattazione decentrata hanno ad oggetto “aumenti” ai dipendenti, anche possibilmente retroattivi e, perché no, elusivi delle “strette” normative!
La reazione dei sindacati alle dichiarazioni (per la verità come sempre un po’ sopra le righe) del Ministro Fornero, alla luce della semplice constatazione della situazione di profonda diversità tra lavoro pubblico e privato oggi sussistente non può non destare la sensazione di un arroccamento. E l’intesa del 3 maggio tra Funzione Pubblica e sindacati, sfociata nel disegno di legge delega per la modifica del d.lgs 165/2001 appare, frigido pacatoque animo esattamente il frutto conservatore di tale atteggiamento.
C’è sicuramente, come da molti sottolineato, il problema della responsabilità erariale che incomberebbe sul dirigente pubblico autore di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, poi riconosciuto illegittimo, laddove il dipendente pubblico vittima di tale licenziamento non fosse reintegrato, ma venisse indennizzato, applicando le regole dell’articolo 18 come la riforma-Fornero intenderebbe modificare.
L’indennità, essendo frutto di un illecito, potrebbe configurarsi come danno erariale. Uno dei punti di “armonizzazione” che il ddl Patroni Griffi avrebbe dovuto affrontare era questo. Ma nel testo proposto non c’è nemmeno l’ombra.
Nei fatti, comunque, non minore responsabilità deriverebbe dal reintegro. L’indennità sostitutiva rappresenta un costo di 21 o 27 mensilità. Il reintegro, implica sostenere costi stipendiali fino al pensionamento.
Sta di fatto, comunque, che la disciplina per giungere al licenziamento collettivo o individuale nella pubblica amministrazione dovuto a giustificato motivo oggetti è contenuta nell’articolo 33 del d.lgs 165/2001, che la connette essenzialmente alla “situazione finanziaria”. Ora, perché in un datore pubblico possa giustificare un licenziamento per elementi connessi alla situazione finanziaria, occorrono fior di atti e documenti pubblici: bilancio di previsione, consuntivo, relazioni, asseverazioni degli organi di revisione, se non di commissari ad acta, a seconda che la ragione finanziaria possa derivare, ad esempio, da violazione del patto di stabilità, oppure da dissesto, o ancora da sforamento dei tetti di spesa di personale. L’apparato motivazionale alla base della grave decisione di giungere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, nell’ambito pubblico, è talmente forte da rendere ipotesi piuttosto di scuola la rilevazione di un’illegittimità da parte del giudice del lavoro. Certo, a proposito di armonia e disarmonia, non sarebbe male se il legislatore prendesse atto che la giurisdizione del giudice del lavoro risulta inadeguata ad affrontare i problemi del lavoro pubblico, perché non conosce o non tiene nel dovuto conto le fortissime peculiarità, che rendono le relazioni industriali del settore pubblico assolutamente non paragonabili a quelle che il giudice ordinario meglio conosce e padroneggia. V’è troppa distanza, ad esempio, tra giurisdizione civile e contabile sulle stesse questioni. E’ un vulnus che andrebbe immediatamente sanato, riportando in fretta la giurisdizione sulle vertenze di lavoro in capo ai Tar, in sede di giurisdizione esclusiva.
Comunque sia, un conto è l’iter procedimentale per il licenziamento e le conseguenze delle tutele processuali, altro è teorizzare che sussistano particolari ragioni a fondamento di una maggiore garanzia per il lavoratore pubblico, anche in presenza di motivi oggettivi di licenziamento.
La base per questa teoria, evidenziata anche da Antonio Naddeo, Capo del dipartimento per la Funzione Pubblica su La Stampa del 26 maggio, sarebbe la circostanza che il dipendente pubblico viene reclutato per concorso, sicchè un suo licenziamento determinato da ragioni politiche mosse da un ministro o un dirigente non può non sfociare nel reintegro.
A parte la circostanza che le ragioni politico-sindacali non possono legittimare alcun licenziamento, nemmeno nel settore privato, non si capisce quale sia la relazione diretta tra forma di reclutamento (concorso) e protezione “particolare” dal licenziamento, per il lavoratore pubblico.
Il concorso non ha, come pare ovvio, alcuna funzione di garanzia dal licenziamento. Non è una garanzia dall’uscita, non è una vincita alla lotteria, ma una garanzia per l’ingresso nel mondo del lavoro pubblico. E si tratta non di una garanzia per la posizione del singolo lavoratore assunto, cioè volta al suo interesse, bensì di una garanzia al perseguimento dell’interesse pubblico a che siano selezionati lavoratori pubblici realmente preparati e capaci, senza che il loro inserimento in ruolo discenda da conoscenze ed amicizie politiche, sindacali o comunque da elementi estranei alla competenza.
Cosa abbia a che vedere tutto questo con l’applicazione dell’articolo 18 è un anacoluto logico. Ma, trincerarsi dietro al concorso torna comodo, per sostenere sofisticamente un regime differenziato tra lavoro pubblico e privato francamente difficile da tollerare, specie da parte dei tanti lavoratori del settore privato.
Per quanto riguarda il licenziamento dei lavoratori privi di qualifica dirigenziale, sta alla competenza ed autonomia dalla politica dei dirigenti scongiurare ipotesi di licenziamenti discriminatori. Per quanto concerne i dirigenti, baluardo contro licenziamenti eventualmente fondati da ragioni politiche sarebbe il definitivo abbandono legislativo dello spoil system e della dirigenza “fiduciaria”, quella veramente incaricata dagli organi di governo solo per “sintonia” politica, al di fuori di selezioni e concorsi. Tale tipo di dirigenza inquina il sistema e, come è nominata per volontà politica e, dunque, rimuovibile per le stesse ragioni, può essere indotta a gestire con medesimi metodi il restante personale.
Il ddl proposto dal Ministro Patroni Griffi pare voglia intervenire sul problema della dirigenza a contratto. Ma solo qualche settimana fa il “decreto fiscale” l’ha praticamente sanata nelle agenzie e negli enti locali. Non proprio un buon viatico per una riforma del lavoro pubblico, più in armonia con se stessa che con il lavoro privato.
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