Dal quel momento scaturiscono una serie di responsabilità per l’ attività svolta dettate dal codice deontologico, dalla legge (es. art. 380 e 381 c.p. ) e dall’ etica, e, che ricomprende il generale dovere di sollecitazione, dissuasione ed informazione del cliente, in adempimento dei quali l’avvocato è tenuto a rappresentare quest’ultimo tutte le questioni di fatto e di diritto, comunque insorgenti, ostative al raggiungimento del risultato, nonché a sconsigliarlo dall’intraprendere un giudizio dall’esito probabilmente sfavorevole” (Cass. 12/10/2009 n. 21589 e 18/11/2009 n. 24344).
Tale responsabilità si ricollega al criterio della diligenza ex art. 1176 c.c. secondo cui: “Nell’adempiere l’obbligazione il debitore deve usare la diligenza del buon padre di famiglia. Nell’adempimento delle obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata.”
Pertanto, il professionista nell’ assumere l’ incarico si impegna non a conseguire un risultato positivo bensi a svolgere con diligenza la propria professione.
Ne consegue, che la violazione a tale dovere determina un inadempimento contrattuale, di cui il professionista risponderà anche per colpa lieve, ad eccezione del caso in cui la prestazione dedotta implichi la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, in tal caso ne risponderà sulla base dell’ art. 2236 c.c.
Principio, confermato da un precedente orientamento giurisprudenziale secondo cui: “
“Essendo le obbligazioni inerenti l’esercizio dell’attività professionale di avvocato obbligazione di mezzi e non di risultato, ai fini del giudizio di responsabilità nei confronti del professionista, rileva non già il conseguimento utile per il cliente, ma il modo come l’attività è stata svolta avuto riguardo, da un lato, al dovere primario del professionista di tutelare le ragioni del cliente e, dall’altro, al parametro di diligenza fissato dall’art. 1176, comma 2, c.c., che è quello del professionista di media attenzione e preparazione” (Cass., n. 8863 del 18.04.2011).
Tanto premesso, recentemente la Corte di Cassazione con sentenza n. 10527 del 22 maggio 2015 ha rigettato un ricorso proposto da un avvocato contro la sentenza emessa dalla Corte di Appello di Perugia, che sanciva la responsabilità professionale dell’ avvocato ribadendo che “ è dovere del difensore quello di tutelare le ragioni del proprio cliente secondo la regola della diligenza di cui all’ art. 1176 c.c. ; e che gli atti interruttivi della prescrizione non richiedono alcuna particolare e specifica competenza”.
Secondo i giudici distrettuali sussiste l’ incarico professionale e non rileva il fatto che il cliente non avesse risposto alla raccomandata inviatagli dal legale, non potendo questo giustificare l’ inerzia in ordine all’ interruzione della prescrizione.
L’ avvocato ricorre in Cassazione, lamentando la violazione e falsa applicazione dell’art. 360, primo comma, n. 3) e n. 5), cod.proc. civ., per travisamento delle risultanze istruttorie, carenza di motivazione e dedotta frode processuale nonché sulla presunta risarcibilità di un danno ulteriore rispetto a quello liquidato dall’INAIL.
Sulla questione la pronuncia della Suprema Corte che ha affermato il seguente principio: “ tra le parti fu concluso un rapporto professionale al fine di ottenere il risarcimento dei danni patiti dal cliente in occasione di un sinistro stradale.
Il danno risarcitorio dall’ Inail era riferibile alla sola lesione della capacità lavorativa, e come tale non copriva tutto il territorio dell’ illecito patito dal cliente, sicchè a carico dell’ avvocato rimaneva comunque un obbligo ulteriore”.
Segue ancora la Corte: “ l’ incarico professionale, una volta conferito, investe l’avvocato della piena responsabilità della sua gestione, senza che possa attribuirsi alcuna forma di corresponsabilità a carico del cliente”.
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