Di che cosa parlano gli avvocati quando parlano dell’incostituzionalità della mediazione

Renato Savoia 24/10/12

“La Corte costituzionale ha dichiarato la illegittimità costituzionale, per eccesso di delega legislativa, del d.lgs. 4 marzo 2010, n.28 nella parte in cui ha previsto il carattere obbligatorio della mediazione.”

Al momento in cui scrivo sono passate poco meno di otto ore da quando il comunicato con queste due righe e mezzo appena riportate è comparso sul sito della Corte Costituzionale.

Ebbene, in neanche mezza giornata queste due righe e mezze hanno scatenato una quantità di reazioni, commenti in tutte le forme (io stesso nel primo pomeriggio già avevo messo online un video a tal proposito), comunicati stampa, interviste, che difficilmente hanno paragoni, a maggior ragione se si pensi che stiamo parlando di una sentenza le cui motivazioni ancora nessuno ha letto, e resa in un ambito apparentemente molto tecnico (ricordo che il giudizio avanti al Consulta verteva sulla costituzionalità o meno dell’obbligo, previsto come condizione di procedibilità rispetto alla domanda giudiziaria, del procedimento di mediazione nelle materie elencate dall’art. 5 del d.lgs 28/2010).

Eppure, appunto, le reazioni sono state numerosissime e onestamente imprevedibili nella loro manifestazione esteriore.

Sui social network si è potuto leggere di avvocati che hanno pianto di gioia alla notizia, di descrizioni di momenti di euforia paragonabili forse alla vittoria ai mondiali di calcio, di complimenti agli aderenti alle associazioni forensi che più sono state parte attiva nel contrastare la mediazione (e poco importa che magari si tratti delle stesse associazioni vituperate fino a ieri come nullafacenti: la coerenza è da un pezzo che ha smesso di essere una virtù, e meno che mai nel momento del ”trionfo”) unitamente a manifestazioni di scherno, e anche qualcosa di più, nei confronti degli organismi di mediazione, del legislatore, del ministro attuale (e passato) di Giustizia e finanche dei colleghi che “si sono venduti per qualche soldo” prestandosi a fare i mediatori.

L’impressione è che questa manifestazione di giubilo, che non può in alcun modo essere sottovalutata data l’entità del fenomeno stesso, sia legata non tanto alla mediazione in sé, quanto al fatto che la decisione della Corte Costituzionale sia stata vissuta dall’avvocatura (o quantomeno da gran parte di essa) come un simbolo.

Abbia, cioè, assunto i connotati della “battaglia finale” tra l’avvocatura da un lato, e i “poteri forti” dall’altro, intendendo quest’ultima locuzione come la somma di governi (passati e presente), mass media, opinione pubblica.

Non si può tacere, infatti, come l’avvocatura stia vivendo da qualche anno (in parte forse a torto, ma per la gran parte a ragione) sentendosi il facile bersaglio di interventi legislativi inutilmente gravatori nei confronti della professione forense e, ancor di più, in un clima di pubblico ludibrio per essere additati come categoria di ricchi evasori, una “casta” di privilegiati restia a ogni novità, causa di buona parte dei mali italici, e chi più ne ha più ne metta.

Non che non ci sia del vero, ma onestamente il clima che si è scelto di alimentare ha inevitabilmente portato anche le anime più moderate dell’avvocatura su posizioni quantomeno di difesa se non di vera e propria “guerriglia” (emblematica, a tal proposito, la manifestazione tenutasi a Roma il 23 ottobre, con tanto di bare a simboleggiare la morte della giustizia, che personalmente ho definito e continuo a definire una “carnevalata” ma che fa capire il livello di esasperazione raggiunto).

Ecco quindi il motivo per cui è difficile, a poche ore dal comunicato stampa (ribadisco: la sentenza per il momento ancora non c’è) affrontare serenamente il futuro della mediazione.

Certo viene difficile pensare che, dopo aver messo in piedi un sistema basato su quasi mille organismi di mediazione riconosciuti dal ministero, il governo ora assista senza muover muscolo alla caduta degli stessi.

Chi scrive, peraltro, più volte ha affermato (e non ho cambiato idea) come errore storico l’opposizione frontale che l’avvocatura nel suo complesso e sicuramente nei suoi vertici istituzionali ha svolto nei confronti della mediazione, anzichè farsene portatrice anche a livello culturale.

Non mi riferisco (solo) alla mediazione obbligatoria, ma ad un percorso che doveva essere ben precedente di diffusione dell’idea che il processo e la sentenza non siano gli unici modi per giungere alla risoluzione di una controversia.

Mi rendo conto che parlare di iniziare questo percorso adesso, a “cadavere caldo”, potrebbe sembrare al tempo stesso presuntuoso e provocatorio.

Io non credo sia così.

Credo sia invece il momento, sgomberato il campo dall’elemento cogente dell’obbligo, di affrontare il problema di rimodellare in modo migliorativo l’esperienza fin qui fallimentare della mediazione: non per reintrodurre dalla finestra l’obbligo scaraventato fuori dalla porta, magari mascherandolo sotto forma di sanzioni pecuniarie per il mancato promuovimento della mediazione quando non si volesse sfidare l’ira di una reintroduzione esplicita dell’obbligo per via normativa, bensì per pensare da un lato di abbassarne i costi, che hanno costituito uno dei motivi dell’opposizione (magari prevedendo che al di là di una quota minima, le spese del procedimento siano a carico delle parti solo nel caso di accordo raggiunto, e non in ogni caso) e dall’altro creando una cultura, attualmente inesistente se non in qualche animo volonteroso, della risoluzione delle controversie fuori dalle aule del tribunale.

Affidarsi fideisticamente ai tempi della giustizia civile ordinaria significherebbe aver perso un’altra occasione per modernizzare l’avvocatura e la giustizia.

E sappiamo, o dovremmo sapere, quanto ciò sia necessario e urgente.

Renato Savoia

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