I giudici di Cassazione con la sentenza n. 18121 del 21 agosto 2014 hanno confermato le decisioni dei giudici territoriali che nei precedenti gradi del giudizio avevano riconosciuto la dequalificazione professionale quale giusta causa di dimissioni del dirigente, condannando la società datrice di lavoro al pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso, nonché di un risarcimento del danno alla professionalità/dignità.
Nel riconoscere al dirigente il risarcimento del danno, i giudici se da una parte hanno escluso la sua derivazione automatica dal solo fatto del demansionamento, dall’altra hanno però statuito che la prova del danno, che comunque spetta al lavoratore che chieda il relativo risarcimento, può ben consistere in presunzioni circa la natura, entità e durata della dequalificazione, nonché a circostanze del caso concreto. Invero, si tratta di un principio già affermato nel 2006 dalle Sezioni Unite di Cassazione intervenute per dirimere un contrato giurisprudenziale: il risarcimento del danno professionale, biologico ed esistenziale derivante dal demansionamento e dalla dequalificazione del lavoratore postula l’allegazione dell’esistenza del pregiudizio e delle sue caratteristiche, nonché la prova dell’esistenza del danno e del nesso di causalità con l’inadempimento, prova che, quanto al danno esistenziale, può essere fornita anche ricorrendo a presunzioni (Cass. civ., Sez. Unite, 24 marzo 2006, n. 6572).
E ancora, si è affermato nella giurisprudenza di legittimità che “il danno esistenziale … deve essere dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all’interno ed all’esterno del luogo di lavoro dell’operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti l’avvenuta lesione dell’interesse relazionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto) … si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno” (Cass. civ., Sez. lav., 17 settembre 2010, n. 19785).
Quanto alla giusta causa, nel caso di specie è stata riscontrata nel fatto che il dirigente fosse stato assunto come responsabile del reparto call center per vedersi subito dopo adibito per più di 5 mesi a una mansione inferiore presso il servizio di “telesportello” consistente nella raccolta di informazioni e reclami degli utenti.
Ebbene, nonostante il datore di lavoro abbia tentato di convincere i giudici dell’insussistenza della dequalificazione evidenziando la durata determinata dell’assegnazione o comunque il fatto che fosse avvenuta in attesa della realizzazione di una nuova struttura aziendale, i giudici hanno ritenuto che la durata di 5 mesi di tale assegnazione fosse un indice idoneo e sufficiente di “palese inadempimento contrattuale” del datore di lavoro per violazione dell’art. 2103 c.c.
Detto ciò, in generale, le cd. dimissioni “in tronco” sono tali da non consentire di mantenere in vita, nemmeno provvisoriamente, il rapporto di lavoro e devono comunque essere motivate, in modo da permettere di valutare le circostanze addotte dal dirigente, che dovranno rivestire una gravità di carattere oggettivo.
Pertanto, giusta causa di dimissioni non sarà solo l’inadempimento contrattuale del datore, ma altresì qualsivoglia fatto che, seppur di per sé lecito, abbia comunque un riflesso sul rapporto tale da renderne insostenibile la sana prosecuzione.
Detto ciò, sebbene i contratti di settore prevedano specifiche e differenti ipotesi di giusta causa di cessazione del rapporto imputabile al datore di lavoro, è la giurisprudenza a giocare un ruolo importante in tal ambito (individuazione di ipotesi di giusta causa).
Dimissioni per giusta causa, gli esempi
In generale, sono esempi di giusta causa di dimissioni: la mancata o ritardata retribuzione (reiterata ed inerente a parti rilevanti); il mancato o ritardato versamento dei contributi (l’omissione costituisce altresì reato di appropriazione indebita da parte del datore di lavoro); le molestie sessuali sul posto di lavoro; peggioramento delle mansioni; la pretesa del datore di prestazioni illecite; mobbing; trasferimento del lavoratore senza ragioni tecniche, organizzative e produttive.
Con particolare riferimento alla posizione dirigenziale, si elencano inoltre: iniziative imprenditoriali illegittime tali da comportare una responsabilità dirigente; richiesta di prestazioni esorbitanti le mansioni del dirigente; mancata corresponsione di un adeguato compenso; mancata regolarizzazione dalla posizione previdenziale.
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento