Danno patrimoniale da lucro cessante, come provarlo: interviene la Cassazione

Un’interessante pronuncia della Corte di Cassazione – ci riferiamo alla sentenza numero 21.988 depositata il 3 settembre 2019 – è intervenuta sulla questione del danno patrimoniale da lucro cessante. E anche sulla sottile distinzione che intercorre tra questa fattispecie e quella della incapacità lavorativa specifica incidente solo sul piano del danno biologico.

Per la precisione, nel primo caso ci troviamo di fronte ad una flessione del reddito del soggetto danneggiato il quale – in ragione delle menomazioni subite – è costretto a rinunciare temporaneamente o permanentemente alla propria attività lavorativa.

Nel secondo caso, invece, parliamo di una “inattitudine” non così grave da inibire la possibilità, per la vittima, di espletare le proprie ordinarie mansioni professionali, ma tuttavia sufficiente a rendere più gravoso il loro esercizio. A tal proposito, la giurisprudenza riconosce la possibilità di incrementare il danno biologico in una certa misura percentuale, e ponderata, proprio per “valorizzare” l’impatto da cenestesi lavorativa sull’organismo dell’individuo infortunato. Il danno da cenestesi, come noto, costringe il danneggiato a svolgere la stessa attività esercitata in precedenza, ma con uno sforzo maggiore.

Nel caso trattato dalla sentenza di cui ci stiamo occupando, la vicenda riguardava una donna investita da un veicolo mentre attraversava la strada. La signora aveva riportato lesioni alla mano sinistra e aveva ottenuto il riconoscimento di un danno biologico pari a 17 punti di invalidità permanente, secondo le conclusioni del medico legale incaricato di redigere la CTU. Il Tribunale aveva appurato che la lesione della mano sinistra avrebbe consentito comunque alla danneggiata di mantenere il livello di reddito inalterato, sia pure lavorando con uno sforzo maggiore. Per questo motivo, sia il giudice di prime cure, sia la Corte d’Appello in secondo grado, avevano riconosciuto il ristoro di un danno biologico adeguatamente personalizzato, sotto il profilo cenestesico, ma non il risarcimento del danno patrimoniale da contrazione dei guadagni.

La vittima dell’incidente decideva di ricorrere davanti ai giudici di legittimità ritenendo che ci fossero tutti i presupposti, nella fattispecie, per ottenere il riconoscimento anche del danno patrimoniale da lucro cessante.

Danno patrimoniale da lucro cessante: requisiti per ottenere la liquidazione

Ebbene, la Suprema Corte ha dato ragione alla ricorrente richiamando un orientamento consolidato, ma spesso frainteso, degli Ermellini. Più specificamente, la Corte ha riassunto come segue i requisiti necessari per ottenere la liquidazione di un danno patrimoniale da incapacità lavorativa specifica.

Innanzitutto, il danneggiato deve ovviamente provare questa tipologia di vulnus, ma può farlo anche attraverso il ricorso a presunzioni semplici. In particolare, con precipuo riferimento alle lesioni di non piccola entità (e quindi a superiori al 9%) è possibile presumere che anche la capacità di guadagno del soggetto risulti ridotta, nella sua proiezione futura, quando la vittima svolga già un’attività lavorativa. E ciò salva la prova contraria che deve, però, essere fornita dal convenuto. Questo primo aspetto è estremamente interessante perché fa piazza pulita di alcuni luoghi comuni che sovente si trasmettono tralatiziamente tra gli operatori del settore (siano essi avvocati piuttosto che giudici) nelle aule di giustizia ove si crea il diritto “vivente”.

Ci riferiamo all’idea – evidentemente errata stando all’insegnamento contenuto nella sentenza che qui si commenta – secondo cui il danno patrimoniale deve essere necessariamente dimostrato attraverso una prova diretta e, per così dire, schiacciante. In realtà, come anzidetto, la prova può anche consistere in una mera presunzione semplice; essa, quindi, si concreta nel combinato disposto tra il riconoscimento della riduzione della capacità di lavoro specifico (connessa con una lesione macro-permanente), da un lato, e il fatto che la vittima già svolgesse una qualche documentata attività lavorativa, dall’altro. Ovviamente tali presupposti consentano di dimostrare l’an dell’esistenza del danno, ma non il quantum.

Per quanto concerne, invece, l’entificazione del danno, grava sul danneggiato l’onere di dimostrare la contrazione dei propri redditi intervenuta dopo il sinistro. In questo caso, il giudice non può supplire alle carenze probatorie dell’attore con il ricorso all’articolo 1226 del codice civile che fa riferimento, come noto, alla valutazione in via equitativa. Questa norma, infatti, afferisce solo ai casi in cui il danno non possa essere provato nel suo preciso ammontare. Laddove, per contro, la vittima continui a lavorare, essa sarà giocoforza, e senz’altro, nelle condizioni di poter dimostrare che il reddito è effettivamente diminuito e quindi non sarà necessario mettere in campo i criteri suppletivi dell’articolo 1226 c.c. In questo senso, si vedano anche le sentenze di Cassazione numero 15.737 del 2018 e 11.361 del 2014. Nel caso specifico, trattato dalla Corte, la prova del lucro cessante era stata effettivamente fornita dalla vittima attraverso la produzione delle buste paga che dimostravano come la stessa avesse mutato, dopo il sinistro, il rapporto lavorativo da tempo pieno a tempo parziale.

In conclusione, possiamo riassumere dicendo che chi agisce per ottenere il risarcimento del danno patrimoniale da lucro cessante dovrà fare i conti con due “momenti probatori”, per così dire: il primo, più semplice, consisterà nel dimostrare l’an del danno, e – per assolvere al relativo onere – sarà sufficiente dimostrare la sussistenza di una lesione superiore al 9% accompagnata dalla dimostrazione del previo, e magari consolidato, esercizio di un qualsivoglia impiego. Il secondo momento consisterà, invece, nella prova dell’entità del pregiudizio: si dovrà cioè dimostrare la effettiva deminutio. Condizione, questa, tutta altro che scontata e “automatica” nel caso in cui la vittima svolga un lavoro autonomo o imprenditoriale. In tali circostanze, infatti, i flussi di reddito spesso sono sconnessi rispetto al tempo effettivamente dedicato dal lavoratore alla propria attività, in una certa annualità fiscale.

 

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