Il Gruppo di lavoro costituito nel mese di maggio dall’Assessore Regionale delle Autonomie Locali, previa approfondita riflessione giuridico-istituzionale, è chiamato ad ipotizzare un progetto di riordino complessivo dell’ente intermedio siciliano programmato dall’Assemblea Regionale Siciliana con la l.r. n. 7 del 27/03/2013.
Il comma 1 dell’articolo unico della citata legge regionale così recita: “Entro il 31 dicembre 2013 la Regione, con propria legge, in attuazione dell’art. 15 dello Statuto speciale della Regione Siciliana, disciplina l’istituzione dei liberi Consorzi comunali per l’esercizio delle funzioni di governo di area vasta, in sostituzione delle Province regionali. Gli organi di governo dei liberi Consorzi comunali sono eletti con sistema indiretto di secondo grado. Con la predetta legge sono disciplinate le modalità di elezione, la composizione e le funzioni degli organi suddetti”.
In disparte la tecnica legislativa utilizzata dal legislatore siciliano, si evidenzia l’assenza di norme di coordinamento con la legge (speciale ed attuativa) istitutiva dei liberi consorzi di Comuni, denominati Province regionali, n. 9/86, e con la più recente l.r. 8 marzo 2012 n. 14 attraverso la quale il medesimo legislatore aveva, appena 18 mesi fa, avviato il riordino dell’ente intermedio, impegnandosi ad individuare con successiva legge, da approvare entro il trascorso 31 dicembre 2012, l’individuazione delle funzioni di indirizzo e coordinamento delle attività dei Comuni e le modalità di elezione degli organi di governo. A una norma di carattere programmatica varata con la l.r. n. 14/2012 la nuova A.R.S. risponde quindi con una nuova norma, anch’essa di carattere programmatico, che sposta esattamente le lancette dell’orologio di ulteriori 12 mesi per la definitiva approvazione della legge sul riordino dell’ente intermedio.
Senza richiamare la vasta dottrina in materia di autonomie locali, ci sembra utile, prima di entrare nel merito delle ampie questioni sottese al riordino dell’ente intermedio regionale, tratteggiare un percorso metodologico che ci consenta, nell’ordine, a) di giustificare la permanenza nell’ordinamento regionale di un ente intermedio secondo il parametro dell’area vasta, b) di catalogare tutte le funzioni amministrative ed i servizi pubblici da affidare alla cura dell’ente intermedio, c) di individuare la tipologia di ente più adeguato ad assicurare la mission istituzionale (ente territoriale di governo o ente consortile), d) di individuare il modello di governance dell’ente più idoneo ad assicurare la partecipazione, ancorchè indiretta, dei cittadini, e) di individuare i criteri qualitativi e quantitativi per il riordino circoscrizionale dell’ente intermedio.
a) la permanenza nell’ordinamento regionale di un ente intermedio
Sotto il profilo formale, l’esistenza di un ente intermedio nell’ordinamento siciliano è prevista dall’art. 15 dello Statuto regionale. L’art. 15 dello Statuto siciliano – approvato con D.L. 15/05/1946 n. 455, convertito in legge costituzionale 26/02/1948 n. 2 – così recita: “Le circoscrizioni provinciali e gli organi ed enti pubblici che ne derivano sono soppressi nell’ambito della Regione siciliana. L’ordinamento degli enti locali si basa nella Regione stessa sui Comuni e sui liberi Consorzi comunali, dotati della più ampia autonomia amministrativa e finanziaria. Nel quadro di tali principi spetta alla Regione la legislazione esclusiva e la esecuzione diretta in materia di circoscrizione, ordinamento e controllo degli enti locali”.
Ma in questa sede è necessario valutarne i presupposti funzionali e sostanziali della sua giustificazione istituzionale. Se, dallo studio a cui siamo stati chiamati, dovesse emergere la non necessaria presenza, ovvero la fungibilità istituzionale, di un ente intermedio che eroghi servizi di area vasta, dovrebbe procedersi speditamente all’adeguamento dello Statuto, anche per le note ragioni di contrazione delle risorse pubbliche. Peraltro, non deve scoraggiare l’eventuale modifica dello Statuto regionale, notoriamente di rango costituzionale, atteso che comunque si dovrà “mettere mano” alla carta costituzionale siciliana se si vorranno introdurre le Città Metropolitane in corso di istituzione nelle altre Regioni a statuto ordinario. In tale contesto, il destino dell’ente intermedio siciliano, anch’esso strettamente connesso al concetto di area vasta, andrebbe messo in relazione altresì alle altre due tessere del mosaico istituzionale recentemente introdotte nell’ordinamento statale, ossia quella che riguarda l’esercizio associato delle funzioni fra i Comuni appartenenti al medesimo territorio e quella concernente l’istituzione delle Città metropolitane.
b) l’individuazione delle funzioni amministrative e dei servizi pubblici da affidare alla cura dell’ente intermedio
Giustificata l’esigenza di un ente intermedio che si occupi precipuamente della dimensione pubblica di area vasta, si dovranno catalogare tutte le funzioni amministrative ed i servizi pubblici la cui gestione, in capo a detto ente, assicuri efficacia ed efficienza sulla base del principio di sussidiarietà verticale. Detto principio, in uno a quello di differenziazione, risulta determinante per raggiungere tali scopi anche per l’ordinamento siciliano. In questo senso, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 408 del 15/12/1998, che respingeva il ricorso della Regione Siciliana avverso la legge n. 59/97, il legislatore regionale, con la l.r. n. 10 del 15/05/2000, si è adeguato al processo di decentramento amministrativo promosso dalle leggi “Bassanini” e, all’art. 31, rubricato “Ripartizione delle competenze tra Regione ed enti locali” così dispone: “In armonia con il principio di sussidiarietà e con i principi enunciati dall’articolo 4 della legge 15 marzo 1997, n. 59, tutte le funzioni amministrative che non richiedono l’unitario esercizio a livello regionale sono conferite agli enti locali”. Il comma 2 dell’art. 32 così recita: “Ai comuni e alle province sono affidate competenze complete ed integrali”. Il comma 5 del medesimo articolo si spinge ancora oltre, introducendo gli articoli 117, commi 1 e 2, e 118, comma 1, della Costituzione per attribuire autorevolezza ordinamentale alla volontà della regione di organizzare l’esercizio delle funzioni amministrative a livello locale attraverso i comuni e le province.
Il concetto di area vasta, quale parametro istituzionale di riferimento nell’allocazione delle diverse funzioni amministrative fra i livelli istituzionali, è stato introdotto nell’ordinamento regionale dal legislatore siciliano attraverso la citata l.r. n. 10/2000. L’articolo 33, rubricato “Funzioni e compiti amministrativi della provincia regionale”, introduce infatti tale concetto di cui si parla solamente nel disegno di legge-delega – Codice delle Autonomie Locali – approvato dal Consiglio dei Ministri nella seduta del 15/07/2009 ed ancora impantanato nelle aule parlamentari. Il 1° comma, infatti, così dispone: “La provincia regionale, oltre a quanto già specificamente previsto dalle leggi regionali, esercita le funzioni ed i compiti amministrativi di interesse provinciale qualora riguardino vaste zone intercomunali o l’intero territorio provinciale, salvo quanto espressamente attribuito dalla legge regionale ad altri soggetti pubblici”.
Nello stesso anno il legislatore regionale, adeguandosi alla riforma delle autonomie locali di cui al d.lgs. n. 265/99, ha introdotto espressamente il principio di sussidiarietà, nelle due versioni (verticale ed orizzontale), attraverso la stessa l.r. n. 30 del 23/12/2000. L’art. 2, rubricato “Principio di sussidiarietà” così dispone: “I comuni e le province sono titolari di funzioni proprie e di quelle conferite loro con legge dello Stato e della Regione, secondo il principio di sussidiarietà. I comuni e le province svolgono le loro funzioni anche attraverso le attività che possono essere adeguatamente esercitate dall’autonoma iniziativa dei cittadini e delle loro formazioni sociali”. Tale principio, ora di rango costituzionale (art. 118), introdotto nell’ordinamento siciliano, non distribuisce direttamente le competenze, ma indica la regola cui la regione deve ispirarsi per la loro allocazione. In tal modo, la sussidiarietà in senso verticale, così configurata, diventa anche per la Regione Siciliana, il principio informatore dei rapporti tra i diversi livelli di governo, sostituendosi al precedente modello a “cascata”. Da questo momento, “Dovranno essere regolati i rapporti tra la Regione e gli enti locali, visto che la nuova amministrazione dovrà essere essenzialmente locale a meno che ci siano ragioni che rendano più congruo ed efficiente la collocazione di una funzione amministrativa ad un superiore livello territoriale di governo”.
All’art. 35 della l.r. n. 10/2000, poi modificato dall’art. 22 della l.r. n. 2/2002, viene prevista altresì l’adozione di appositi decreti del Presidente della regione, previo parere della Conferenza Regione-autonomie locali, della Commissione affari istituzionali e della Commissione bilancio dell’Assemblea regionale siciliana, per l’individuazione dei procedimenti di competenza rispettivamente delle province regionali e dei comuni.
c) Individuazione della tipologia di ente più adeguato ad assicurare la mission istituzionale (ente territoriale di governo o ente consortile)
Individuate le funzioni amministrative, ed i servizi pubblici orbitanti nella dimensione dell’area vasta, si dovrà stabilire la tipologia di ente alla cui cura affidare l’esercizio unitario delle stesse. Lo Statuto siciliano ha certamente optato per i liberi consorzi di Comuni, cioè per un ente intermedio di tipo consortile e come tale alternativo al tradizionale modello dotato di copertura costituzionale qual’è l’ente territoriale di governo (art. 114 Cost.). La scelta, che presuppone un minimo di riflessione istituzionale con particolare riferimento al più grande tema dell’autonomia politica (art. 5 Cost.), non può essere influenzata dal dato testuale e formale dello Statuto, ma da quello funzionale e sostanziale. Come già detto, sia le leggi ordinarie che quelle di rango costituzionale, se necessario, vanno modificate nel contesto di un riordino concreto dell’ente intermedio.
Appare evidente che l’autonomia locale di un ente aumenta all’aumentare delle funzioni amministrative che esercita, e diminuisce al diminuire delle stesse funzioni. A titolo esemplificativo, si può ragionevolmente sostenere che un ente intermedio che esercita solo funzioni di indirizzo e coordinamento delle attività comunali può richiedere un modello istituzionale di tipo associativo o consortile, cioè dotato solo di autonomia amministrativa e finanziaria. Viceversa, un ente intermedio, alla cui cura sono affidati importanti e/o fondamentali funzioni amministrative, richiede un ente territoriale di governo dotato non solo di autonomia amministrativa e finanziaria ma anche di autonomia politica. Ciò, proprio per ridurre al minimo la distanza tra comunità locali e rappresentanti locali, aumentando il grado di partecipazione del cittadino nei processi di decisione pubblica locale.
Dalla lettura della l.r. n. 9/86 e del suo precipitato normativo, non sembra revocabile in dubbio che la volontà del legislatore regionale sia stata nel tempo quella di dotare l’ordinamento regionale di un ente territoriale che, nell’esercitare funzioni intermedie a quelle della Regione e dei Comuni, rappresentasse direttamente gli interessi generali di una comunità stanziata su un territorio provinciale. Un progetto, evidentemente, ben più ambizioso dei liberi consorzi di Comuni. Infatti, mentre il libero consorzio di Comuni ha tradizionalmente, ma anche secondo la previsione di cui all’art. 13 del d.l. del Presidente della regione n. 6 del 29/10/1955, “…natura di ente pubblico non territoriale, dotato di autonomia amministrativa e finanziaria”, la provincia regionale è, anche per espressa volontà del legislatore (art. 4, comma 3, L.r. n. 9/86) un ente pubblico territoriale che realizza l’autogoverno della comunità consortile e sovrintende, nel quadro della programmazione regionale, all’ordinato sviluppo economico e sociale della comunità medesima. Nella medesima disposizione normativa viene altresì espressamente sancito il principio che la Provincia Regionale è titolare di funzioni proprie ed esercita le funzioni delegate dallo Stato o dalla Regione.
Si dovrà quindi fare una scelta netta su questo argomento, sapendo che nel caso in cui la Regione dovesse optare per un modello di ente intermedio diverso da quello del resto d’Italia, dovrebbe anche intervenire su tutta la legislazione regionale di settore vigente, auspicando che il legislatore statale faccia lo stesso per coordinare le norme in materia finanziaria e tributaria che continuano a riconoscere, quale interlocutore, l’ente locale Provincia.
d) Individuazione dei criteri qualitativi e quantitativi per il riordino circoscrizionale dell’ente intermedio
L’art. 17, comma 1, del d.l. n. 95 del 2012, convertito nella legge n. 135 del 2012 stabilisce che il riordino sia effettuato “sulla base di requisiti minimi da individuarsi nella dimensione territoriale e nella popolazione residente in ciascuna provincia” e affida la determinazione di tali requisiti minimi ad una apposita deliberazione del Consiglio di Ministri. La deliberazione, adottata il 20 luglio 2012, ha definito tali requisiti, rispettivamente, in una dimensione territoriale non inferiore a 2500 chilometri quadrati e in una popolazione residente non inferiore a 350.000 abitanti. Orbene, se i principi desumibili da tale norma statale possono, al di là dell’autoqualificazione ivi contenuta, considerarsi norme fondamentali dell’ordinamento, come tali operanti immediatamente nell’ordinamento siciliano, è dubbio che la stessa portata si possa attribuire anche ai citati requisiti demografici e territoriali. L’indiscussa autonomia ordinamentale della Regione (ex art. 14 dello Statuto) mentre non svincola il legislatore regionale dal riordinare l’ente intermedio siciliano secondo un’articolazione che conduca ad un numero complessivo più ridotto di enti locali di area vasta, abilita lo stesso legislatore ad utilizzare parametri quantitativi e qualitativi propri che potrebbero suggerire diverse ripartizioni del territorio regionale.
e) Individuazione del modello di governance dell’ente intermedio.
L’individuazione del modello di governance dell’ente intermedio dipende certamente dalla tipologia di ente che si è scelta, atteso che mentre la Provincia voluta dalla l.r. n. 9/86 è configurata come un ente rappresentativo delle popolazioni locali, il libero consorzio di Comuni previsto dall’art. 15 dello Statuto regionale è configurato, come già detto, un ente espressione associativa, o consortile, dei Comuni. Pertanto, se si dovesse optare per la scelta del modello associativo, l’assenza di autonomia politica giustificherebbe certamente un modello di governance di 2° e 3° grado. Quindi, ad essere rappresentati nel libero consorzio di Comuni non sarebbero, in via diretta, i cittadini, ma, in via indiretta, i Comuni consorziati, chiamati a nominare i rappresentanti dell’assemblea consortile e, quest’ultimi, ad eleggere il Presidente del libero consorzio di Comuni.
Se invece si dovesse optare per l’ente territoriale di governo, la scelta di un sistema di organi eletti in secondo e terzo grado appare assai più difficile da giustificare, soprattutto in presenza di funzioni amministrative proprie di area vasta affidate all’ente intermedio.
Considerazioni finali
Seguire un percorso metodologico in una materia complessa come quella che ci occupa è fondamentale per scongiurare l’improvvisazione che ha animato le scelte del legislatore, sia statale che regionale, degli ultimi anni. Le Istituzioni che costituiscono l’architettura della Repubblica Italiana meritano di essere studiate in profondità prima di avventurarsi in ipotesi di riforme che rischierebbero di presentarsi come cure peggiori dei mali.
Peraltro, l’Istituzione (articolata ai vari livelli) va considerata come un vestito da fare indossare alla comunità di riferimento (comunale, provinciale, statale, europea). A tal fine, una Istituzione locale potrà definirsi “faccia interna della sovranità” allorquando si presenterà su misura, cioè né troppo stretta né troppo larga. In entrambi i casi la comunità di riferimento individuata non mancherrebbe di mostrare nel tempo insofferenza, disagio e, nel lungo periodo, reazioni sociali. Inoltre, l’Istituzione dovrà avere la caratteristica della flessibilità, cioè quella proprietà che, risentendo dei mutamenti sociali ed economici, si adatta in modo perpetuo. Corollario di questo ragionamento è che le Istituzioni, anche locali come quelle in trattazione, non possono essere statiche ma devono mutare dinamicamente col mutare delle società. A fortiori, in epoca come quella in cui viviamo dove i mutamenti sociali, economici e culturali avvengono in maniera repentina e tumultuosa.
Ben venga quindi un riordino complessivo del sistema delle autonomie locali in Sicilia, a condizione che non si faccia una legge di riordino per inseguire il risparmio forzoso o, peggio ancora, per assecondare le sirene dell’antipolitica. Opportuna in questa direzione è l’affermazione di Fabio Giglioni secondo cui, “Intervenire sull’organizzazione della pubblica amministrazione a soli fini di risparmio può determinare effetti collaterali indesiderati e, soprattutto, rischia di sottovalutare i maggiori effetti benefici anche in termini di risparmio che possono provenire da una riorganizzazione della pubblica amministrazione che presti più attenzione all’efficacia e all’efficienza delle azioni e gestioni, valutando nel merito e da un punto di vista qualitativo l’utilità di certi enti”.
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