Innanzitutto, partiamo dalla norma giuridica che è stata violata. Nel nostro caso è una norma fondamentale perché è l’articolo 3 della Convezione Europea dei Diritti dell’Uomo. Nostro non solo perché è l’argomento che voglio trattare ma anche perché siamo stati noi ad averla violata.
E nei confronti di chi? Nei confronti dei centinaia di detenuti che affollano le nostre carceri.
È scuola la sentenza della Corte EDU, conosciuta come Torreggiani e altri c. Italia, che l’8 gennaio 2013 ha condannato l’Italia a risarcire i sette ricorrenti per il trattamento disumano e degradante subito nei nostri istituti penitenziari dove erano stati rinchiusi per scontare pene detentive. Sentenza che lo stato italiano ha impugnato (l’accusa di violazione dell’articolo 3 CEDU non è da poco) ma che è stata confermata dalla Grande Camera nel 2014.
Nella due sentenze si affronta il problema del sovraffollamento carcerario, definito dai giudici di Strasburgo come “grave”. Infatti, i detenuti (ieri, come anche oggi) non disponevano dello spazio ritenuto vitale per l’uomo, che non deve essere inferiore a 3 mq, come stabilito nelle sentenze Sulejmanovic c. Italia del 16 luglio 2009 e Ananyev e altri c. Russia del 10 gennaio 2012. Lo studio condotto nei nostri istituti penitenziari ha rilevato che ciascun detenuto ha a disposizione circa 2,7 mq.
La Corte Europea poneva il 28 maggio 2014, poi prorogato a giugno 2015, come termine entro il quale lo Stato doveva “istituire un ricorso o un insieme di ricorsi interni effettivi idonei ad offrire una riparazione adeguata e sufficiente in caso di sovraffollamento carcerario”, rimedi sia preventivi che compensativi.
Da qui si sono susseguiti innumerevoli interventi normativi volti a diminuire la popolazione carceraria, attraverso innalzamento della durata di pena prevista per l’applicazione della custodia in carcere, un aumento delle ipotesi di ricorso alla detenzione domiciliare, fino ad arrivare al decreto legge n. 92 del 2014, convertito in legge 11 agosto 2014, n. 117 riguardante “disposizioni urgenti concernenti il risarcimento in favore dei detenuti, la custodia cautelare in carcere e ulteriori interventi i materia penitenziaria”.
Questo decreto ha riformato in più parti il Codice di Procedura Penale e la legge sull’ordinamento penitenziario, in particolare ha arricchito quest’ultima legge di un nuovo articolo (35-ter) rubricato “Rimedi risarcitori conseguenti alla violazione della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali nei confronti di soggetti detenuti o internati” (disposizione che dovrebbe applicarsi anche ai soggetti internati negli ormai ex OPG).
L’articolo si compone di tre commi: nel primo, si prevede che il soggetto costretto a condizioni di detenzione tali da violare la Cedu, può fare istanza per ottenere dal giudice di sorveglianza una riduzione della pena detentiva ancora da espiare pari , nella durata, a un giorno per ogni dieci durante il quale il richiedente ha subito il pregiudizio; nel secondo, dispone che, se la durata della pena ancora da espiare è inferiore al periodo di sconto a cui il detenuto avrebbe diritto in applicazione del primo comma, il magistrato di sorveglianza liquida al richiedente, in relazione al residuo periodo e a titolo di risarcimento, una somma di denaro pari a euro 8 per ciascuna giornata nella quale questo ha subito pregiudizio (non è chiaro come possa essere risarcito un danno, che deve essere valutato caso per caso, con una somma determinata a priori); il terzo ed ultimo comma prevede la disciplina da applicarsi nel caso in cui il soggetto che ha subito il pregiudizio sia già libero, cioè abbia scontato tutta la pena.
Ad oggi abbiamo già alcune applicazioni di questa nuova norma: un 39 enne detenuto nel carcere leccese di Borgo San Nicola ha ottenuto uno sconto di pena e un risarcimento in denaro per avere avuto a disposizione in cella meno di tre metri quadrati. In applicazione del secondo comma dell’articolo 35-ter ricevuto la somma di 260 euro a titolo di risarcimento.
Un caso simile è avvenuto a Sollicciano, in provincia di Firenze, qualche settimana fa. La “detenzione inumana e degradante” in violazione dei parametri europei sui diritti umani patita da un detenuto ha portato il magistrato di sorveglianza ad accogliere il relativo ricorso, per cui lo stesso ha ottenuto uno sconto di pena, che lo ha portato all’immediata scarcerazione, e a ricevere la somma di 3.840 euro a titolo di risarcimento per il periodo di detenzione non computabile ai fini dello sconto di pena.
Da più parti si dice che il legislatore abbia mancato ancora una volta un’occasione utile per risolvere definitivamente il problema dell’esecuzione delle pene nel nostro Paese.
Il sovraffollamento carcerario è un problema grave ma non può essere affrontato e pensare risolto con interventi disorganici e incoerenti.
In soldoni, se per ogni reato la legge prevede un quadro edittale di durata della pena (prendiamo solo in caso della pena detentiva), ma questa è in concreto determinata in base a diverse circostanze che il giudice valuta caso per caso, introducendo disposizioni che in “corso d’opera” ridefiniscono il valore della pena lede il principio di certezza del diritto, rischia di incentivare la commissione di reati, almeno per quelli minori, aumenta il carico di lavoro degli uffici giudiziari, soprattutto in questi casi dei tribunali di sorveglianza, e viola il dettato costituzionale che solennemente stabilisce che “Le pene […] devono tendere alla rieducazione del condannato”.
Gli uffici giudiziari da mesi sono sommersi da ricorsi per l’applicazione di questa nuova norma che non risolve il problema alla radice ma si preoccupa di “curarne” gli effetti, anche se dubito che 8 euro al giorno possano ristorare una persona di una vera e propria segregazione.
Difficile risulta anche applicare con successo un programma rieducativo del condannato nel periodo di esecuzione della pena, se questa è suscettibile di continue riduzioni.
Il prevedere un risarcimento presuppone che ci sia un danno, ma il solo fatto di ammettere l’esistenza di un danno è indice che nel sistema qualcosa non va. Il legislatore dovrebbe più coraggiosamente e più ragionevolmente farsi carico di una riforma organica del nostro ordinamento giudiziario, dalla definizione di singole ipotesi di reato, all’esecuzione della pena, magari ripensando alla funzione della pena.
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