Cronistoria dei mille insuccessi della legge 40/2004 sulla procreazione medicalmente assistita

Come noto, la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo ha inteso bocciare, con la sentenza Costa e Pavan dell’agosto 2012 (relativa al ricorso 54270/10), alcuni dettami della legge italiana in materia di procreazione medicalmente assistita.

La censura alla legge 40/2004 è arrivata in seguito al ricorso di due coniugi romani i quali si erano rivolti alla Corte, avendo scoperto di essere portatori sani di fibrosi cistica, e desiderando un figlio che non ereditasse codesta malattia, che ereditaria è. L’unica soluzione applicabile a tale scopo sarebbe stata quella di potere ricorrere ad una fecondazione in provetta, preceduta ovviamente da una diagnosi pre-impianto sull’embrione ottenuto, prima del suo trasferimento nell’utero materno.

I due aspiranti genitori incontrarono però, già nel 2010, l’insormontabile ostacolo costituito dalla legge 40/2004, e precisamente dei suoi articoli 4 e 13. In essi, si prescrive che solamente coppie sterili possano accedere alla fecondazione in provetta ( ed i coniugi non risultavano nè risultano affetti da sterilità! ), e si vieta, in ogni caso, l’analisi di embrioni finalizzata ad impiantare nella donna soltanto quelli sani. Analisi che viene unicamente concessa alle coppie in cui il coniuge sia portatore di una malattia virale sessualmente trasmissibile come l’Hiv o l’epatite B e C, per evitare che il feto ne sia contagiato. Ma, nel caso in oggetto, i coniugi ricorrenti non risultavano e non risultano portatori di una malattia di codesto tipo.

Secondo i Giudici di Strasburgo, invece, la normativa italiana viola l’articolo 8 della Convenzione europea, che riconosce il diritto al rispetto della vita privata e familiare, nel quale rientrerebbe pure il diritto di una coppia ad avere un bambino che non sia affetto da malattie genetiche.

Nettamente bocciata la linea di difesa del Governo italiano, che ha tentato di appigliarsi alla necessità di evitare i rischi dell’eugenetica. Anzi, la Corte sottolinea come il divieto frapposto dalla legge italiana non faccia altro che spingere inopportunamente una donna a ricorrere all’aborto terapeutico nei casi di malattia del feto, con danni anche psicologici sulla madre ed una sicura violazione del diritto al rispetto della vita familiare.

Ci troviamo, così, dinanzi ad una sentenza di grandissimo impatto sulla legge n. 40, tenendo conto che le norme della Convenzione europea possiedono un rango subcostituzionale nel nostro ordinamento, nel senso che, in caso di contrarietà tra leggi interne e Convenzione, le disposizioni nazionali devono essere dichiarate incostituzionali per contrarietà allo stesso articolo 117 della Costituzione.

Non solo.

I nostri giudici nazionali devono interpretare le norme interne alla luce delle disposizioni convenzionali, come a sua volta interpretate da Strasburgo. E’ vero che gli Stati godono, nei casi in cui vengano in rilievo aspetti di carattere etico, di un ampio margine di discrezionalità, ma sempre nel rispetto della Convenzione europea.

La Corte sottolinea pure che, di 32 Stati che compongono il Consiglio d’Europa, solo 3 (Italia, Svizzera ed Austria) vietano il ricorso alla diagnosi pre-impianto. Di qui, la condanna all’Italia e l’obbligo, per lo Stato italiano, di versare ai ricorrenti 15mila euro per i danni non patrimoniali e 2.500 euro per le spese processuali.

La pronuncia sarà definitiva tra 3 mesi: periodo entro il quale sarà possibile il ricorso in appello alla Grande Camera. Non resta che chiederci, a questo punto, se la legge 40/2004 non necessiti, più che di eventuali abrogazioni parziali o totali di qualche proprio articolo, di una totale e più attenta revisione nelle sue parti più sensibili.

Negli anni, infatti, sia alcuni tribunali italiani che la stessa Consulta hanno evidenziato questa necessità, aprendo la strada, ad esempio, alla diagnosi pre-impianto, ed abolendo altri divieti sanciti dalla normativa, come quello di crioconservazione degli embrioni, ed avevano altresì abolito il limite di utilizzo di tre embrioni per ogni ciclo di fecondazione.

La legge 40 é finita, infatti, ben cinque volte sui banchi della Corte Costituzionale ( una volta nel 2005, due nel 2009, una nel 2010, ed una nel 2012); ed è stata messa in dubbio per 17 volte in tutto, qualora si aggiungano anche le pronunce dei tribunali.

Per quanto riguarda la diagnosi pre-impianto, nel 2005 il Tribunale di Cagliari aveva sollevato questione di legittimità costituzionale circa l’articolo 13, in relazione ad una donna portatrice sana di beta-talassemia, cui era stata negata la possibilità di tale diagnosi ( anche se, nel 2006, la Corte Costituzionale aveva dichiarato inammissibile il ricorso, poichè formulato in modo contraddittorio ).

Nel 2007, il Tribunale di Cagliari aveva invece riconosciuto che la diagnosi pre-impianto é consentita, e qualche mese più tardi aveva fatto lo stesso anche il Tribunale di Firenze.

Nel 2008, il Tar del Lazio aveva annullato le linee guida per l’applicazione della legge per ‘‘eccesso di potere”, nella parte in cui vietavano le indagini cliniche sull’embrione; e, nel 2009, la Consulta aveva abolito il divieto di crioconservazione, scrivendo anche che la coppia ha diritto all’informazione sullo stato di salute dell’embrione, e a potere effettuare, conseguentemente, una scelta consapevole: cosa che giustifica l’impiego delle migliori tecniche “secondo i canoni della scienza e dell’arte medica”. Pronunciamento che venne a rassicurare i centri di procreazione assistita italiani, i quali ripresero a fare le diagnosi pre-impianto. Nel 2010, il Tribunale di Salerno autorizzò, per la prima volta in Italia, la diagnosi genetica pre-impianto ad una coppia fertile portatrice di una grave malattia ereditaria, l’atrofia muscolare spinale di tipo 1. A questa, seguirono altre decisioni nella stessa direzione presso i tribunali di Firenze, Bologna e Salerno per altre coppie.

D’altronde, anche le normative di molti Stati europei risultano non poco dissonanti da quella italiana. In materia di selezione pre-impianto degli embrioni, ad esempio, sono sedici i Paesi che la applicano: Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Norvegia, Paesi Bassi, Portogallo, Repubblica Ceca, Regno Unito, Russia, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svezia.

E non è tutto: la stessa Corte europea ha voluto porre in evidenza come, in ben 15 Paesi del vecchio continente, il ricorso alla fecondazione in vitro sia concesso (cosa che é possibile in Italia) anche a coppie fertili. Nell’ordine, tale pratica è concessa in Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Grecia, Norvegia, Paesi Bassi,Portogallo, Regno Unito, Repubblica Ceca, Russia, Slovacchia, Slovenia, Spagna e Svezia (con le sole Italia, Svizzera ed Austria a vietare lo svolgimento di esami pre-impianto su coppie feconde).

Ai posteri l’ardua sentenza circa l’epilogo normativo della nostra zoppicante legislazione in materia!

Antonio Ruggeri

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