Costa 35 miliardi di euro la sentenza della Corte Costituzionale sul pubblico impiego? No, al massimo 0,6

Dario Di Maria 22/06/15
Potrebbe essere solamente 650 milioni di euro l’impatto della decisione che domani la Corte Costituzionale sarà chiamata a pronunciare sulla legittimità del blocco della contrattazione nazionale del pubblico impiego. Infatti la cifra “monstre” di 35 miliardi si riferisce ai 6 anni passati, calcolata secondo scenari economici e giuridici nettamente diversi.

L’Avvocatura generale dello Stato nelle memorie depositate ha scritto che “se i contratti nazionali del pubblico impiego fossero stati rinnovati per tutti i dipendenti, durante gli anni che vanno dal 2010 al 2015, i costi non sarebbero stati inferiori a 35 miliardi di euro“, prevedendo un effetto strutturale di circa 13 miliardi annui dal 2016.” (fonte:www.corriere.it)

 

E’ necessaria però distinguere il dato dell’Avvocatura da facili allarmismi e deduzioni infondate, per tre ordini di motivi:

1) la pronuncia del 23 giugno dovrà prendere in considerazione solamente la contrattazione per gli anni 2014 e 2015;

2) le stime del passato sul costo del rinnovo della contrattazione collettiva, devono essere fortemente riviste al ribasso, in quanto è mutato lo scenario di riferimento;

3) il Governo stesso in passato ha quantificato l’impatto del blocco della contrattazione in termini di indebitamento netto in circa 1,3 miliardi di euro, per gli anni dal 2013 al 2015..

 

I) La pronuncia del 23 giugno dovrà prendere in considerazione necessariamente solamente la contrattazione per gli anni 2014 e 2015.

Già la Corte Costituzionale, con sentenza n. 310/2013, ha dichiarato legittimo il blocco per gli anni 2010-2013[1].

Inoltre la legge di stabilità 2015 ha tolto il blocco al trattamento economico dei singoli dipendenti[2], il blocco dei fondi per la contrattazione integrativa[3], e il blocco delle progressioni di carriera[4] .

Resta, quindi, da decidere solamente sulla proroga del blocco della contrattazione nazionale disposta con l’art. 16 co. 1 del DL 98/2011 (a cui ha dato attuazione il DPR 122/2013 ) per l’anno 2014 che travolgerebbe, conseguentemente, la proroga per l’anno 2015 disposta con la L. 190/2014.

Quindi, il “costo della sentenza” è da valutarsi solamente con riferimento agli anni 2014 e 2015.

 

 

II) Le stime del passato devono essere riviste al ribasso.

Il rinnovo della contrattazione, secondo l’accordo di maggio 2009, dovrebbe prendere come riferimento l’indice IPCA. Tale indice è stato del 3,2% per l’anno 2012, e per l’anno 2013 era previsto del 2%, mentre per l’anno 2014 è stato solamente dello 0,3%, ed è previsto solamente dello 0,6% per l’anno 2015 (fonte Istat).

Quindi le stime di 2,2 miliardi l’anno (cfr. Corte dei Conti, Relazione 2013 sul costo del lavoro pubblico, pag. 24), che, ovviamente, si cumulano[5] fino ad arrivare a 35 miliardi in 6 anni, sono basate su un indice IPCA del 2%, e quindi devono essere riviste fortemente al ribasso per gli anni 2014 e 2015.

Infatti, se con l’IPCA al 2% era previsto un costo di 2,2 miliardi l’anno, con lo 0,3% è ragionevole aspettarsi un costo pari a circa 330 milioni di euro per l’anno 2014, a cui si aggiungerebbero per l’anno 2015 660 milioni di euro (IPCA 0,6%). Il costo cumulato (330 primo anno, 330+660 secondo anno) sarebbe pari a circa 1,3 miliardi di euro.

Ma non è tutto. Il costo della contrattazione, ha un effetto sull’indebitamento netto della P.A. per circa il 50%. Cioè, a fronte di un aumento di 1,3 miliardi di euro in 2 anni delle retribuzioni, si stima sempre che l’effetto sull’indebitamento netto è circa il 50% (cfr. Corte dei Conti, ibidem), che, in 2 anni, sarebbe pari a circa 650 milioni di euro, non 35 miliardi!

 

 

III) Il Governo stesso in passato ha quantificato l’impatto in termini di indebitamento netto in circa 1,3 miliardi di euro.

In passato il Governo ha stimato i risparmi “in termini di indebitamento netto, non inferiori a 30 milioni di euro per l’anno 2013 e ad euro 740 milioni di euro per l’anno 2014, ad euro 340 milioni di euro per l’anno 2015 ed a 370 milioni di euro annui a decorrere dall’anno 2016

Quindi siamo ben lontani dai 35 miliardi!

Ma dove? Nell’art. 16, comma 1, del DL 98/2011, proprio quello di cui si discuterà la legittimità costituzionale.

Si sottolinea che la previsione è del 2011, quando le stime dell’indice di riferimento erano intorno al 2,0%.

Non si può quindi affermare che, bloccando la contrattazione, il risparmio è circa 1,3 miliardi di euro, mentre riavviando la negoziazione si apre una voragine di 35 miliardi di euro.

 

 

Infine: l’Avvocatura dello Stato (oggi guidata dall’ex presidente dell’ARAN) si è sbagliata? Ovviamente no!

L’Avvocatura ha fornito un dato, largamente condivisibile e probabilmente sottostimato, che però riguarda il passato, quando i dipendenti pubblici erano oltre 100.000 in più (confronto 2010-2013, fonte Aran.it, dati statistici), quando l’indice per l’adeguamento delle retribuzioni era al 3,2% (anno 2012), contro lo 0,3% del 2014.

Oggi il costo del rinnovo dei contratti sarebbe molto più basso, e l’impatto sull’indebitamento andrebbe valutato nella misura del 50% del costo.

L’affermazione dell’Avvocatura è stata:“se i contratti nazionali del pubblico impiego fossero stati rinnovati i costi non sarebbero stati inferiori a 35 miliardi di euro“, mentre la percezione comune è stata che la sentenza “costerebbe” appunto 35 miliardi.

Quello dell’Avvocatura è un dato (probabilmente prudente), mentre la percezione comune è una indebita deduzione.

 



[1] art. 9 comma 21 del DL 78/2010

[2] art. 9, comma 1

[3] art. 9 comma 2-bis

[4] art. 9 comma 21, terzo e quarto periodo

[5] 2,2 il primo anno, 4,4 il secondo a cui si sommano i 2,2 del primo anno, e così via per 6 anni dal 2010 al 2015 fino ad arrivare ad un costo complessivo di 35 miliardi

Dario Di Maria

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