E questo mentre non solo il Sud e’ scomparso tra gli impegni programmatici di quel governo, ma e’ stato soppresso il Ministero della coesione (che coordinava gli interventi finanziari statali ed europei) e la legge di stabilità 2014 ha stanziato per quest’anno solo 50 milioni sui 54 md del Fondo di sviluppo e coesione per il 2014-2020. Non so se tra le letture del giovine Renzi vi sia il bel libro di Viesti, Abolire il Mezzogiorno, pubblicato più di dieci anni fa, ma certamente la pratica tradisce un approccio disattento ad un’area del Paese che con 21 milioni di abitanti e meno di 6 milioni di occupati (dopo averne perso il 10% solo nel 2013) e’ allo stremo ed alla deriva. Il Mezzogiorno, come evidenziava quel libro, è stato una palla al piede per taluni, per altri è un facile alibi o un noioso rituale da inserire in agenda, per altri ancora la scorciatoia per arricchirsi illecitamente, per tutti questi una buona scusa per non affrontare realmente i problemi di competitività e coesione del Paese. E così, come dimostra l’ultimo Report-Sud della Fondazione Curella-Diste sull’Economia del Mezzogiorno, il divario rispetto al Nord del Paese è cresciuto (i punti di Pil perduti nel periodo 2007-13 sono il doppio: 15,5 contro il 7).
Lo Stato, d’altra parte, ha nel frattempo abbandonato del tutto le iniziative di sostegno al Meridione (Svimez), mentre le misure di perequazione fiscale ed infrastrutturale sono ridotte ai minimi termini approfondendo gli effetti divaricanti di un federalismo sbilenco che, in modo carsico, prosegue i propri effetti distorsivi privo com’è di misure di riequilibro. Non che le Regioni del Sud – sopratutto le due insulari e differenziate – abbiano brillato nell’ultimo trentennio per efficienza, ed oggi indugiano in un atteggiamento remissivo ai vincoli insostenibili di politiche di austerità incompatibili con il sostegno alla crescita (qualcuno dedito ormai ad ‘accattonaggio’ finanziario, comprensivo di assessori all’economia, e’ convinto di sbarcare il lunario…. l’allusione a Crocetta è voluta).
Occorre invece cambiare piano di sviluppo per la Sicilia, attraendo investimenti e creando occupazione con forme di fiscalità di vantaggio e di innovativo partenariato pubblico-privato, mettendo all’angolo le pratiche di esponenti del ceto politico ed imprenditoriale che hanno scelto, in forme pur rinnovate, di perpetuare l’intermediazione parassitaria (adesso fascinosamente denominata ‘legalità e sviluppo’). Ancora più perniciose perché fondate sulla mistificazione e su un famelico istinto appropriativo di beni e consensi, malcelato dal professionismo di certa ‘antimafia a gogó’. Ma se per ‘strambare’ sulla crescita occorre adottare misure di espansione, queste sono compatibili con i vincoli che lo Stato ci impone? Se le politiche statali ed europee di coesione per il Mezzogiorno hanno dimostrato, addirittura, minor efficienza di quelle messe in campo dalle Regioni, siamo sicuri che disfacendoci dell’autonomia speciale, che pur qualche strumento offre, avremo gli strumenti per affrontare questa svolta epocale? L’autonomia differenziata, in questo impetuoso declino, viene considerata una patologia, una ‘zavorra’ (per dirla con E.Del Mercato, E. Lauria, Laterza, 2010), ‘condanna’ ineluttabile per la Sicilia da abbandonare, cadendo così nella sindrome del martello (per la quale i maldestri utilizzatori di un utile strumento dirigono gli strali allo strumento quando colpiscono le proprie dita anziché il chiodo), sicché si sostiene che buttando alle ortiche l’Autonomia si risolverebbero i problemi della Sicilia e della sua classe dirigente, politica, ma anche imprenditoriale e sindacale, in buona parte ignorante ed inadeguata (anche in questo caso le allusioni non sono preterintenzionali). Dietro il disvalore per la nostra specialità si intravede un giudizio di minorità antropologica dei siciliani, incapaci di autogovernarsi, di cambiare, divenendo essi stessi artefici della loro rovina.
E questo clima favorisce così quella tendenza, ormai consolidata, di strisciante accentramento realizzato dalla ‘legislazione della crisi’ degli ultimi anni che, a sua volta, ha reso impraticabile l’adozione di misure di sostegno al lavoro ed alla crescita, consolidando la consapevolezza che politiche pubbliche gestite dal centro non determinano alcun effetto di riequilibrio, semmai rafforzano i processi di deprivazione del Mezzogiorno e di divaricazione socio-economica del Paese. Un esempio per tutti: l’università, politica rientrante nella competenza statale, seppur con forti profili di autonomia ‘locale’, per la quale alle Regioni e’ stato solo richiesto un supporto finanziario, e progressivamente tramontata come priorità dell’agenda politica del Paese, sopratutto nel Mezzogiorno. La materia dell’ordinamento universitario – com’è noto – non è espressamente contemplata dall’art. 117 Cost., essa, tuttavia, può essere pacificamente ricondotta alla materia “norme generali sull’istruzione”, che l’art. 117, secondo comma, lett. n)) della Costituzione demanda alla potestà legislativa esclusiva statale, che trova fondamento nell’art. 33 Cost., che riconosce alle università “il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti da leggi dello Stato”. Sulla base di tale norma e’ stata emanata la legge 9 maggio 1989, n. 168 che ha istituito il Ministero dell’università e della ricerca scientifica e tecnologica e definito i profili dell’autonomia (art. 6).
Ebbene se l’Italia può contare su un totale di 92 atenei (dei quali 67 pubblici e 29 privati), in Sicilia, dove vive quasi un decimo degli italiani, troviamo soltanto i tre storici (Palermo, Catania e Messina) più uno (Kore di Enna) nato dopo un lungo negoziato con il Ministero. Nell’ultimo Rapporto sullo stato del sistema universitario e della ricerca 2013 dell’Agenzia nazionale per la valutazione dell’università e la ricerca (ANVUR), Palermo, Catania e Messina sono ultime tra le grandi Università del Paese, mentre Enna e’ la penultima tra quelle di piccole dimensioni. E questo mentre i poli didattici (Agrigento, Siracusa, Trapani, Ragusa, Caltanissetta) sono in agonia per le approssimazioni finanziarie e non della c.d. soppressione delle Province regionali (l.r. 8/2014). I dati Eurostat 2013 dimostrano che la percentuale di italiani tra i 30 e i 34 anni che hanno completato gli studi universitari (22,4%) è la più bassa di tutti i 28 paesi Ue e molto inferiore alla media (37%). A risultati più soddisfacenti approdano pure Romania (22,8%), Croazia (25,9%) e Malta (26%), mentre primeggiano Irlanda (52,6%), Lussemburgo (52,5%) e Lituania (51,3%). Se poi è vero che tra il 1993 e il 2012 la quota dei laureati italiani sulla popolazione in età da lavoro e’ cresciuta dal 5,5% al 12,7% e tra i giovani tra 25 e 34 anni dal 7,1% al 22,3% – il che dimostra la consolidata tendenza verso l’università di massa – l’Italia è comunque uno dei paesi con la più bassa quota di laureati: meno di Germania (29%), Francia (42,9%) e Regno Unito (dove oltre il 45% dei giovani è laureato).
Il rapporto ANVUR evidenzia però un’ulteriore allarmante riduzione delle immatricolazioni negli Atenei, da 338 000 del 2005 a 270 000 del 2013 (-20%). La diminuzione riguarda il Nord solo per il 10%, il Centro per il 20%, ma soprattutto il Sud per il 30% dove vi sono i più alti tassi di povertà, di abbandono scolastico e di esclusione dal mercato del lavoro. Una vera e propria fuga, alla quale si aggiunge che un giovane universitario meridionale su quattro preferisce ancora i “viaggi della speranza” iscrivendosi negli Atenei del Centro-Nord (oltre 170.000 nell’ultimo decennio dai dati Unioncamere). A lasciare il Mezzogiorno non sono così solo i giovani laureati alla ricerca di un’occupazione, ma anche coloro che intraprendono il percorso formativo, consolidando il processo di desertificazione di nuove classi dirigenti nel Sud. E questo mentre crescono rapidamente le percentuali di giovani ‘neet’ (fuori dal circuito formativo e di lavoro) che non hanno neanche lo stimolo a cimentarsi in spostamenti che costituiscono comunque un’utile opportunità.
Questi dati, oltre al drammatico fallimento della politica di alta formazione nel Paese (ulteriormente penalizzata dall’ultimo d.l. del Governo statale che, contrariamente agli annunci, taglia trenta milioni per l’anno in corso e quarantacinque milioni dal 2015 in poi al Fondo di finanziamento ordinario per le università italiane), evidenziano come una politica se mal gestita ed ancor peggio finanziata a livello statale può aggravare gli effetti di marginalizzazione per la Sicilia ed il Mezzogiorno. Ma di esempi analoghi e fallimentari – purtroppo – se ne potrebbero portare di altri (concorrenza, grandi reti, ricerca, emigrazione, energia, politica mediterranea, etc.). E cosa accadrebbe di fronte allo smantellamento dell’autonomia regionale e delle sue competenze se non un ulteriore depauperamento, come lo definiva Don Sturzo? Occorre allora rilanciare e riformare l’autonomia piuttosto che rinunciare alla specialità – rafforzando la leva finanziaria che, ad esempio, ha consentito a Malta di introdurre misure concrete di fiscalità differenziata – creando nuovi percorsi può per uscire dalla crisi. E’ questa la sfida da raccogliere nel percorso di revisione costituzionale. Non si tratta di dismettere, delusi, un’autonomia conquistata a caro prezzo, ma di ripensarla. Con passione e determinazione, restituendole credibilità e responsabilità.
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