Corte dei Conti, danno all’immagine della P.A. risarcibile anche per reati sessuali

Redazione 22/08/11
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La Corte dei conti della Toscana, con decisione numero 277 del 2011, ha ritenuto risarcibile il danno all’immagine della P.A., in presenza di qualunque tipo di reato compiuto dal pubblico dipendente.

Disatteso il precedente orientamento della Corte Costituzionale (sentenza numero 355 del 2010), secondo cui sarebbe invece risarcibile solo il danno all’immagine derivante da reati “propri” contro la pubblica amministrazione (con esclusione dei reati “comuni”).

I Giudici toscani osservano che, se esiste un disegno legislativo (di cui dà atto la sentenza 355/2010), “volto a ridurre i casi di responsabilità amministrativa per evitare un rallentamento nell’efficacia e nella tempestività dell’azione dei pubblici poteri, in conseguenza dello stato diffuso di preoccupazione che potrebbe ingenerare in coloro ai quali è demandato l’esercizio dell’attività amministrativa”…  la Consulta “sembra ritenere  funzionale, al disegno medesimo, una riduzione della responsabilità per danno all’immagine derivante da reato comune più che una riduzione della responsabilità per danno all’immagine derivante da reato contro la pubblica amministrazione”.

Ma a questo Collegio sembra, però, vero l’opposto e, cioè,  che sia proprio la riduzione della responsabilità amministrativa per danno derivante da reato contro la pubblica amministrazione ad essere maggiormente funzionale all’esigenza di evitare il rallentamento dell’attività amministrativa, essendo evidente, per esempio, che non è la paura delle conseguenze di una violenza sessuale ma  il timore di incorrere in un abuso di ufficio che più si presta a rendere meno efficace  e tempestiva l’azione dei pubblici poteri”.

In definitiva, va ritenuta la piena ammissibilità della tutela del danno all’immagine della pubblica amministrazione derivante da reato comune.

Di seguito, il testo della sentenza.

– – –

Corte dei conti per la Toscana

Sentenza 2 agosto 2011 numero 277

(…)

Diritto

2. (…) antecedentemente all’intervento della Corte Costituzionale, con sentenza n. 355 del 2010, non si era ancora formato, in ordine all’interpretazione dell’art. 17, comma 30 ter, del D.L. n. 78/2009,  un “diritto vivente”, essendo ancora presenti, nello scenario giurisprudenziale, almeno tre opzioni interpretative:

a.                  per una prima di esse, l’art. 17, comma 30 ter, andava interpretato nel senso che la tutela del danno all’immagine della pubblica amministrazione, per fatto dei suoi dipendenti, continua a sussistere nei soli casi  direttamente previsti dall’art 7 della legge n. 97 del 2001 e, cioè, in quelli in cui il predetto danno derivi da reati contro la pubblica amministrazione, dovendosi ritenere preclusa ogni ulteriore tutela per quello derivante da reati diversi da quelli commessi contro la pubblica amministrazione e, a maggior ragione, per quello da fatto illecito non costituente reato;

b.                  per una seconda, l’art.  17, comma 30 ter, andava interpretato nel senso che la tutela del danno all’immagine della pubblica amministrazione, per fatto dei suoi dipendenti, continua a sussistere non solo nei casi direttamente previsti dall’art. 7 della legge n. 97 del 2001, ma anche in quelli che lo stesso art 7 della legge n. 97 indirettamente prevede allorquando fa salvo il disposto dell’art. 129 (comma 3) disp. att. c.p.p.

Continua a sussistere, quindi, sia nel caso di danno all’immagine derivante da reati contro la pubblica amministrazione sia in quello derivante da ogni altro reato, dovendosi ritenere esclusa ogni ulteriore tutela soltanto nel caso in cui tale danno deriva  da fatto illecito non costituente reato;

c.                  per una terza, infine, l’art.  17, comma 30 ter, andava interpretato  nel senso che la tutela del danno all’immagine della pubblica amministrazione, per fatto dei suoi dipendenti, continua a sussistere, come per la seconda opzione, nel caso in cui esso derivi da qualsiasi tipo di reato (con la sola esclusione, quindi, di quello conseguente a  fatto illecito non costituente reato), ma spetta alla giurisdizione del giudice contabile solo per il danno all’immagine derivante da reato contro la pubblica amministrazione, mentre rientra in quella del giudice ordinario per il danno all’immagine derivante da reato diverso.

3.         Con la citata .sentenza n. 355  del 2010, la Corte Costituzionale – che, in casi consimili, caratterizzati dall’assenza di una interpretazione consolidata sulla norma denunciata, ha dichiarato (come ha fatto in relazione ad altra questione di costituzionalità decisa con la stessa sentenza) inammissibile la questione sottopostale, per non avere il giudice a quo sperimentata la possibilità di una diversa interpretazione costituzionalmente orientata – questa volta ha provveduto a scegliere direttamente una delle interpretazioni possibili  ritenendola conforme alla Costituzione.

L’interpretazione prescelta dalla Corte Costituzionale corrisponde alla prima delle opzioni interpretative sopra richiamate, e la sua conformità a  Costituzione viene affermata dal giudice delle leggi nel rilievo che la limitazione della tutela del danno all’immagine, al solo caso in cui il danno sia arrecato da un reato contro la pubblica amministrazione, si inserisce coerentemente in un disegno legislativo volto a ridurre i casi di responsabilità amministrativa. Infatti, tale responsabilità, se non ragionevolmente limitata in senso oggettivo, è suscettibile di determinare un rallentamento nell’efficacia e nella tempestività dell’azione amministrativa dei pubblici poteri, per effetto del diffuso stato di preoccupazione che potrebbe ingenerare in coloro ai quali è demandato l’esercizio dell’attività amministrativa.

4.         Peraltro, la sentenza della Corte Costituzionale n. 355 del 2010 è una sentenza di rigetto (piuttosto che interpretativa di rigetto) come si desume dalla circostanza che, in essa, a differenza che nelle sentenze interpretative di rigetto, si perviene alla dichiarazione di non fondatezza  della questione  di costituzionalità deferita, non sulla base di  un’interpretazione alternativa della norma denunciata, ma alla stregua della stessa interpretazione prospettata dal giudice a quo.

Comunque, sia le sentenze di rigetto sia quelle interpretative di rigetto (siano queste ultime esplicite oppure occulte), non hanno, a differenza di quelle dichiarative di illegittimità costituzionale, efficacia erga omnes e, pertanto, determinano un vincolo (nemmeno assoluto) solo per il giudice del procedimento nel quale la relativa questione è stata sollevata.

Invece, negli altri procedimenti, il giudice conserva il potere-dovere di interpretare, in piena autonomia, la norma denunciata, sempre che il risultato ermeneutico risulti adeguato ai principi espressi nella Costituzione, poiché l’interpretazione fatta propria dalla Corte Costituzionale riveste, per il giudice diverso da quello a quo, solo il valore di un precedente autorevole, purché sorretta da argomentazioni persuasive, tali da indurlo, nell’esercizio delle sue autonome funzioni, a condividerne il contenuto e a farlo proprio, non essendo sufficiente la semplice qualificazione, da parte del giudice delle leggi, di una determinata interpretazione, come costituzionalmente corretta, a imporne l’osservanza al giudice stesso, essendo quest’ultimo tenuto autonomamente a verificare, con l’uso di tutti gli strumenti ermeneutici attribuitigli, se la disposizione impugnata possa realmente assumere il significato e la portata attribuitile dalla Corte costituzionale.

In tali termini si sono più volte espresse le Sezioni Unite della Cassazione penale (sentenza n. 23016 del 2004), con considerazioni che attengono alle sentenze interpretative di rigetto, ma che ben possono estendersi a quelle di rigetto, quando queste, come nella specie, non si fondino sul “diritto vivente” (cioè su di un’interpretazione consolidata) ma siano il frutto di una scelta tra più opzioni interpretative tutte da verificare.

5.         Sulla base delle predette considerazioni il Collegio si ritiene legittimato a ricercare, ed eventualmente a scegliere, un’interpretazione dell’art. 17, comma 30 ter, diversa da quella fatta propria dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 355 del 2010, eventualmente traendola dalle opzioni interpretative che la Corte stessa non ha considerato o ha disatteso, tra cui, segnatamente,  quella di cui all’ordinanza della Sezione Lazio n. 462 del 2009 ed alle sentenze della Sezione Lombardia nn. 640 e 641 del 2009 e nn. 16, 50, 130, 131, 132, 318 e 813 del 20010, per le quali, in adesione alla seconda delle opzioni interpretative sopra richiamate, la tutela del danno all’immagine della pubblica amministrazione  continua a sussistere anche se il danno deriva non da un reato contro la pubblica amministrazione, ma da uno comune.

In questo suo sforzo interpretativo, il Collegio prende le mosse dalla constatazione che l’art. 17, comma 30 ter, non indica direttamente i casi in cui può essere esercitata l’azione contabile per danno all’immagine della pubblica amministrazione, ma rinvia ai casi (e ai modi) previsti dall’art. 7 della legge n. 97 del 2001.

Ne consegue che, per l’interpretazione dell’art. 17, comma 30 ter, diventa fondamentale individuare quali, e soprattutto quanti, sono i casi e i modi  previsti dall’art. 7 della legge n. 97 del 2001.

Orbene, l’art.7 della legge n. 97 del 2001 si compone di due periodi:

– nel primo, si stabilisce che  l’azione contabile per danno erariale conseguente a reato contro la pubblica amministrazione deve essere esercitata entro 30 giorni dalla comunicazione della sentenza penale irrevocabile di condanna;

– nel secondo, viene fatto salvo il disposto dell’art. 129 (comma 3) disp. att. c.p.p., per il quale il pubblico ministero, quando esercita l’azione penale per un reato che ha cagionato un danno per l’erario, deve informare il procuratore generale (oggi il procuratore regionale) presso la Corte dei Conti, dando notizia della imputazione.

La lettera della norma, se è chiara quanto al contenuto dei due periodi separatamente letti, non consente, invece, un’interpretazione univoca se questi si leggono in reciproca coordinazione.

Appaiono, infatti possibili, al riguardo, almeno due approcci interpretativi, che conducono a soluzioni diametralmente opposte;

a.         in un primo,  i due periodi di cui si compone la norma potrebbero essere coordinati in modo da darne la seguente lettura: per l’esercizio dell’azione contabile per danno da reato contro la pubblica amministrazione, la nuova disciplina introdotta con il primo periodo non esclude, ma si aggiunge, la disciplina dell’art. 129 (comma 3) disp. att. c.p.p., fatta salva dal secondo periodo, di modo che, all’esercizio dell’azione contabile per danno da reato contro la pubblica amministrazione, si applica sia la disciplina dell’art. 7 della legge n. 97 del 2001 sia quella dell’art. 129 (comma 3) disp. att. c.p.p.

A favore di tale interpretazione depongono specifici precedenti giurisprudenziali – sia anteriori (Sezione Veneto n. 104 del 2007; Sezione Prima Centrale n 4 del 2003 e n. 429 del 2008) sia successivi (Sezione Lombardia n. 318 del 2010), all’entrata in vigore dell’art 17 comma 30 ter – in base ai quali “non è improcedibile l’azione di responsabilità esercitata dall’organo requirente anteriormente alla comunicazione di cui all’art. 7 della legge n. 97 del 2001, atteso che detta previsione – avente per oggetto la notizia al competente Procuratore regionale della Corte dei conti delle sentenze irrevocabili di condanna pronunciate nei confronti dei dipendenti pubblici  per reati contro la pubblica amministrazione – si aggiunge al preesistente meccanismo di cui all’art. 129, disp. att. c.p.p. e, quindi, deve ritenersi rafforzativa e non già limitativa delle prerogative della Procura regionale” (.Sezione Veneto n. 104 del 2007)

Se la tesi dovesse essere accolta, allora la conseguenza sarebbe che, effettivamente, come si trova presupposto nella sentenza della Corte Costituzionale n. 355 del 2010,  l’art. 7 della legge n. 97 del 2001 prevede soltanto “il caso” dei reati contro la pubblica amministrazione, sia quando introduce una nuova disciplina (primo periodo), sia quando coordina  la nuova disciplina introdotta con quella preesistente  (secondo periodo).

Ne risulterebbe, quindi, avallata l’interpretazione della Corte Costituzionale, che attribuisce all’art. 17, comma 30 ter, l’effetto di limitare, con il richiamo all’art. 7 della legge n. 97 del 2001, la tutela del danno all’immagine della pubblica amministrazione al solo e unico “caso” del danno derivante da reato contro la pubblica amministrazione.

Ma, accolta la predetta interpretazione – proprio perché questa fa leva sul presupposto che la clausola di salvaguardia posta dal secondo periodo dell’art. 7 della legge n. 97 del 2001 ha come fine quello di assicurare, all’azione contabile per danno all’immagine derivante da reato contro la pubblica amministrazione, l’applicazione congiunta della nuova e della vecchia disciplina – diventerebbe impossibile sostenere, contemporaneamente, che, per effetto del primo periodo dello stesso 7 della legge n. 97 del 2001, l’azione contabile per danno all’immagine derivante da reato contro la pubblica amministrazione può essere esercitata solo in presenza di una sentenza irrevocabile di condanna;

b.         in un secondo approccio interpretativo,  l’art. 7 della legge n. 97 del 2001, potrebbe, invece, essere letto nel diverso senso che la norma, mentre, col primo periodo, mira ad introdurre una nuova disciplina per i danni derivanti dai reati contro la pubblica amministrazione, si preoccupa, con il secondo periodo, di mantenere ferma, per gli altri reati, la disciplina di cui all’art. 129 (comma 3) disp. att. c.p.p.

La conseguenza sarebbe che, dovendosi, in questo caso, considerare il richiamo all’art. 129 (comma 3) disp. att. c.p.p. in sé e, quindi, non più in quanto funzionale all’individuazione della disciplina complessivamente applicabile ai reati contro la pubblica amministrazione, allora l’art. 7 della legge n. 97 del 2001  verrebbe a riguardare, con i rispettivi “modi”,  non più un solo “caso” ma  due “casi”  e, cioè, sia  il “caso” dei  reati contro la pubblica amministrazione sia quello dei reati comuni.”

Ne risulterebbe avallato, questa volta, l’orientamento delle Sezioni Lazio e Lombardia, espresso nelle sentenze innanzi richiamate, per il quale, con il richiamo all’art. 7 della legge n. 97 del 2001, l’art 17, comma 30 ter, come si è già detto, avrebbe conservato la tutela dei danni all’immagine della pubblica amministrazione anche nel caso di danni derivanti da reati comuni.

Va da sé, poi, che accolta la predetta interpretazione, proprio perché questa porta a concentrare la disciplina dell’azione contabile per danno da reato contro la pubblica nel solo primo periodo dell’art. 7 della legge n. 97 del 2001, senza che possa essere ritenuto ulteriormente applicabile l’art. 129 (comma 3) disp. att. c.p.p.,  sarebbe necessario escludere che l’azione contabile per danno all’immagine derivante da reato contro la pubblica amministrazione  possa essere esercitata in presenza di una sentenza penale  irrevocabile  di condanna.

La conclusione è, dunque, che  l’art. 7 della legge n. 97 del 2001 presenta, sul piano letterale, una pluralità  di significati, che può essere ridotta ad unità  solo ricorrendo all’interpretazione logico-sistematica e, in  particolare, individuando la  ratio legis obiettivamente considerata.

6.         Orbene, sotto il profilo della ratio legis, il Collegio osserva che  entrambe le interpretazioni  dell’art. 7 della legge n. 97 del 2001 sopra delineate si prestano ad un’analoga critica preliminare:

a.   la prima, perché attribuisce al primo periodo dell’art. 7 della legge n. 97 del 2001 un effetto acceleratorio (il procuratore regionale deve esercitare l’azione di responsabilità amministrativa  entro 30 giorni……) del tutto incomprensibile.

Escluso, infatti, perchè si troverebbe in contrasto con il disegno legislativo di cui si dirà appresso, l’intento di un appesantimento della responsabilità amministrativa dei pubblici dipendenti, sembra,  parimenti, doversi escludere che la norma abbia avuto l’intento di favorire l’Erario, poiché, altrimenti, non si capirebbe perché sia stata posta soltanto per i reati contro la pubblica amministrazione e non anche per gli altri reati.

b.   la seconda, perché attribuisce alla clausola di salvaguardia di cui al secondo periodo dell’art. 7 della legge n. 97 del 2001 un significato pleonastico, in quanto, anche in assenza della clausola in questione, sarebbe stato, difficile dubitare  della sopravvivenza, per i reati comuni, dell’art. 129 (comma 3) disp. att. c.p.p.

Accantonate le critiche preliminari e proseguendo nell’indagine, va, però, subito detto che, mentre la ratio della prima interpretazione continua a restare incerta, quella della seconda comincia ad assumere  contorni precisi e soprattutto  collocabili nel sistema, giacché  inserisce, a pieno titolo, l’art 7 della legge n. 97 del 2001 nel disegno legislativo, di cui alla stessa sentenza della Corte Costituzionale n. 355 del 2010, volto a ridurre i casi di responsabilità amministrativa per evitare un rallentamento nell’efficacia e nella tempestività dell’azione dei pubblici poteri, in conseguenza dello stato diffuso di preoccupazione che potrebbe ingenerare in coloro ai quali è demandato l’esercizio dell’attività amministrativa.

Vero è, infatti, che la Corte Costituzionale richiama  il predetto disegno legislativo nel contesto di un ragionamento  in cui sembra ritenere  funzionale, al disegno medesimo, una riduzione della responsabilità per danno all’immagine derivante da reato comune più che una riduzione della responsabilità per danno all’immagine derivante da reato contro la pubblica amministrazione, ma a questo Collegio sembra, però, vero l’opposto e, cioè,  che sia proprio la riduzione della responsabilità amministrativa per danno derivante da reato contro la pubblica amministrazione ad essere maggiormente funzionale all’esigenza di evitare il rallentamento dell’attività amministrativa, essendo evidente, per esempio, che non è la paura delle conseguenze di una violenza sessuale ma  il timore di incorrere in un abuso di ufficio che più si presta a rendere meno efficace  e tempestiva l’azione dei pubblici poteri .

7.         Per il complesso della suesposte considerazione, il Collegio accede alla seconda delle opzioni interpretative esaminate e, per l’effetto, conclude ritenendo che l’art. 17, comma 30 ter,  va  interpretato nel senso che esso non esclude la tutela del danno all’immagine della pubblica  amministrazione derivante da reato comune anche in assenza di sentenza di condanna irreversibile.
(…)

 

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