E’ una delle previsioni contenute nell’art. 10 della legge delega in materia fiscale (L. 23 dell’11 marzo 2014).
Il Governo dovrà introdurre, con uno o più decreti legislativi, norme per il rafforzamento della tutela giurisdizionale del contribuente, assicurando la terzietà dell’organo giudicante, nonché accrescere l’efficienza nell’esercizio dei poteri di riscossione delle entrate.
Il richiamo alla terzietà dell’organo giudicante appare persino superfluo, essendo un principio già assodato nell’ordinamento vigente, tranne che il legislatore non voglia finalmente sottrarre il contenzioso tributario dalla sfera di competenza del Ministero dell’Economia e portarlo in quella del Ministero della Giustizia (o, in alternativa, della Presidenza del Consiglio dei Ministri).
Non sfugge a nessuno, infatti, che il Ministero dell’Economia, tramite le Agenzie delle entrate, è indirettamente spesso una delle parti del processo.
L’’indipendenza del giudice tributario è certamente assicurata nel momento decisionale, ma andrebbe garantita anche nell’organizzazione dei servizi necessari all’esercizio della giurisdizione.
Dovrebbe, pertanto, essere superata un’organizzazione dei servizi delle Commissioni tributarie che ha come riferimento il Mef, cui compete l’amministrazione del personale e la gestione delle risorse economiche relative agli uffici di segreteria.
L’altro obiettivo che il Parlamento ha assegnato al Governo è il rafforzamento e la razionalizzazione dell’istituto della conciliazione nel processo tributario, anche a fini di deflazione del contenzioso e di coordinamento con la disciplina del contraddittorio fra il contribuente e l’amministrazione nelle fasi amministrative di accertamento del tributo, con particolare riguardo ai contribuenti nei confronti dei quali sono configurate violazioni di minore entità.
La funzionalità della giurisdizione tributaria dovrebbe essere migliorata, oltre che con la distribuzione territoriale dei componenti delle commissioni tributarie (asserzione criptica, di difficile comprensione, principio privo di qualunque indicazione su come debba essere attuata la ridistribuzione del personale) con l’eventuale reintroduzione della composizione monocratica dell’organo giudicante in relazione a controversie di modica entità e, comunque, non attinenti a fattispecie connotate da particolari complessità o rilevanza economico-sociale.
Quello che il legislatore delegante sembra dimenticare è che con l’art. 39 del D.L. n. 98/2011 ha introdotto nel D.Lgs. n. 546/1992 l’art. 17-bis, proprio per le cause di minore entità, il reclamo obbligatorio.
Il giudice monocratico sarebbe, quindi, chiamato a decidere solo in merito a quelle controversie che non sono state risolte con l’istituto della mediazione obbligatoria e che non gli saranno sottratte dalla prevista regolazione, secondo i criteri propri del processo civile, delle ipotesi di inosservanza dei criteri di attribuzione delle controversie alla cognizione degli organi giudicanti monocratici o collegiali.
L’effetto deflattivo del contenzioso potrebbe, quindi, essere estremamente ridotto.
Il giudice tributario monocratico potrebbe smaltire direttamente solo le cause di minore entità derivanti da provvedimenti emessi da soggetti diversi dalle Agenzie delle entrate (comuni, concessionari della riscossione, camere di commercio, etc.).
Diverso sarebbe se il legislatore rimettesse al giudice tributario monocratico il compito di mediare tra Agenzia delle entrate e contribuente per le controversie di importo inferiore ai 20.000 euro.
La mediazione obbligatoria avverrebbe di fronte ad un soggetto terzo, che potrebbe delibare sulle ragioni del reclamo e, nel caso in cui le parti non raggiungano nessun accordo, potrebbe direttamente decidere nel merito, eventualmente anche in via equitativa (modalità che oggi è preclusa a prescindere dal valore della controversia).
I vantaggi di una tale soluzione sarebbero diversi. Intanto il contribuente sarebbe più garantito dall’affidamento dell’esame degli atti reclamabili ad un giudice imparziale anziché ad una struttura della stessa Agenzia delle entrate.
La norma attuale prevede che a decidere sul reclamo sia la Direzione provinciale o quella regionale, attraverso strutture diverse ed autonome. Trattasi, comunque, sempre di una delle parti interessate alla controversia, sia pure in composizione diversa da quella che ha emesso l’atto.
Il reclamo affidato direttamente alle cure del giudice monocratico non subirebbe quella sorta di trasformazione genetica da atto meramente amministrativo a ricorso giurisdizionale.
Decorsi novanta giorni senza che il reclamo sia stato accolto o la mediazione conclusa, attualmente il reclamo produce gli effetti del ricorso. Nel caso in cui le ragioni del contribuente non trovino accoglimento, quindi, il reclamo non riduce il contenzioso, ma aggrava l’iter a carico del contribuente.
Con le innovazioni apportate dalla legge di stabilità 2014 (L. 147/2013) la presentazione del reclamo è diventata condizione di procedibilità del ricorso (e non più di ammissibilità dello stesso).
In caso di deposito del ricorso prima del decorso del termine di novanta giorni, l’Agenzia delle entrate, in sede di rituale costituzione in giudizio, può eccepire l’improcedibilità del ricorso e il presidente, se rileva l’improcedibilità, rinvia la trattazione per consentire la mediazione.
Anche in questo caso una misura studiata per accelerare la risoluzione delle controversie tributarie finisce per appesantirle ulteriormente e rallentarne la definizione.
Aggravio che sarebbe eliminato se nella stessa seduta il giudice che ha registrato l’impossibilità di raggiungere un accordo tra le parti, potesse decidere direttamente la controversia.
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