In attesa di conoscere le motivazioni a supporto dell’annunciata impugnativa della riforma dell’ente intermedio siciliano da parte del Consiglio dei Ministri, bisognerebbe rispondere ad una legittima domanda che in molti si pongono: cosa avrebbe dovuto fare il legislatore regionale per non farsi impugnare una legge così importante per l’ordinamento delle autonomie locali?
Sarebbe bastato un testo di legge snello attraverso il quale si dava attuazione reale (e non fittizia come invece avvenuto) all’art. 15 dello Statuto speciale, liberando le (abusive) Province regionali dalla pesante natura giuridica di ente territoriale di governo e ripristinando i “liberi Consorzi comunali”, già istituiti a seguito della l.r. n. 9/86. Lo svuotamento delle funzioni amministrative sarebbe stato certamente in linea con quanto prescritto dalla legge Delrio, peraltro, nella prospettiva della espunzione delle “Province” dalla Carta costituzionale. Ai “liberi Consorzi comunali”, così depurati, il legislatore avrebbe dovuto assicurare le sole funzioni di indirizzo, controllo e coordinamento che, tradizionalmente, risultano più compatibili con la tipologia di enti consortili governati attraverso sistemi elettivi di 2° grado.
Tutte le altre funzioni amministrative previste in capo alle ex Province regionali dalla l.r. n. 9/86 andavano ripartite tra il livello comunale e quello regionale, lasciando ferma, ovviamente, l’autonomia e la libertà ai Comuni per l’esercizio associato di funzioni amministrative riconducibili all’area vasta.
L’occasione legislativa avrebbe dovuto altresì suggerire al distratto legislatore regionale di ordinare le norme sugli organismi partecipati dagli enti territoriali, in quanto materie disciplinate da disposizioni statali e regionali non omogenee, talora risalenti nel tempo, e, comunque, adottate in mancanza di un disegno coerente. In tale contesto, ci si aspettava che il legislatore provvedesse almeno al trasferimento della titolarità delle funzioni amministrative di controllo e regolamentazione, ancora in capo alle liquidande AA.TT.OO., per la gestione del servizio idrico integrato, anche nella considerazione che gli ambiti territoriali ottimali per la gestione di servizi pubblici locali a rilevanza economica, secondo la normativa statale, non possono essere inferiori al bacino provinciale.
Invero, non solo le superfetazioni istituzionali, meglio conosciute come AA.TT.OO., sono state mantenute e disciplinate da specifiche normative, ma ai “liberi Consorzi comunali” sono state affidate tantissime funzioni amministrative sia di regolazione che di gestione, così violando sia lo spirito dell’art. 15 dello Statuto speciale che i principi contenuti nella legge statale Delrio.
Ma vi è di più, l’illuminato legislatore regionale ha permesso, sia in materia di gestione integrata di rifiuti che in materia di gestione integrata delle risorse idriche, di frammentare gli ambiti territoriali ottimali nel tentativo di restituire progressivamente ai Comuni la gestione dei rispettivi servizi. Queste scelte, in disparte i profili d’incostituzionalità che presentano per violazione del principio di unicità, non tengono conto che tra le principali difficoltà sperimentate nel raggiungimento di un’organizzazione efficiente delle imprese che prestano i servizi in questione, vi siano proprio le dimensioni ancora eccessivamente ridotte dei singoli ambiti operativi, per lo più già attualmente corrispondenti ai territori provinciali, che nella maggior parte dei casi non consentono la realizzazione di opportune economie di scala, che sono una condizione indispensabile affinchè le imprese del settore siano effettivamente in grado di fornire servizi di migliore qualità, con costi e quindi prezzi realmente competitivi. La riduzione a livello comunale comporterà inevitabilmente alle imprese (pubbliche o private poco importa) che gestiscono i servizi di realizzare economie di scala, in presenza di ambiti territoriali che non potranno più essere “ottimali”.
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