Le prassi illegittime utilizzate per ammonire gli smemorati del pianerottolo sembrano lasciare completamente impregiudicato, al momento, l’altro fronte delle sanzioni ipertrofiche, in base al quale le stesse sono giudicate conciliabili con le direttive e soprattutto con le soglie prefigurate dalla normativa anti usura (legge 108/1996). La questione trattata dalla Seconda civile, rifiutando il ricorso da parte del condominio creditore, aveva ad oggetto una lottizzazione dei primi anni ’90 nella quale un comproprietario risultava sanzionato dal consorzio per i gravosi ritardi nei pagamenti delle quote corrispondenti ad un avanzamento dei lavoratori.
I comproprietari, col favore di una delibera assembleare del tutto ignorata, avevano fatto appello diretto al pretore territoriale il quale aveva emesso la condanna del soggetto moroso al versamento delle quote, di otto anni antecedenti, con tanto di aggravio degli interessi pari al 20% su base annua. Una decisione dunque amara per il ritardatario, ma che venne completamente ribaltata a distanza di soli cinque anni dalla Corte d’Appello di Roma, responsabile di aver contratto gli interessi entro il fondo del tasso legale, ordinando altresì la rifusione delle spese di giudizio.
E oggi la delibera, fulcro originario della controversia, secondo il parere espresso dalla Suprema Corte sarebbe investita da completa nullità (e non da mera annullabilità), perché non risultata rientrante nelle mansioni ascrivibili all’assemblea. Come da giurisprudenza appurata infatti, (da ultimo si cita la Cassazione Sezione II, 10929/11) la prescrizione di interessi moratori nei confronti di condomini con a carico ritardi nei pagamenti delle quote condominiali, si apprende dalla sentenza 10196/2013, può trovare inserimento solo ed esclusivamente all’interno di un regolamento contrattuale, dietro unanime approvazione.
Il vizio di partenza insito alla delibera oggetto di discussione arriva a tirare in ballo, stravolgendole, anche tutte le risoluzioni adottate in successione: la nullità decretata inficia le conseguenti delibere in particolare nella parte in cui, entro la ripartizione degli oneri di gestione tra i consorziati in relazione ad ogni singolo anno, esse hanno considerato applicabile il medesimo tasso di mora pari al 20%. Intervenendo il vizio di nullità poi, il condomino oggetto della sanzione non risulta nemmeno vincolato ai terminali di impugnazione come indicati dall’articolo 1137 del codice civile (“Contro le deliberazioni contrarie alla legge o al regolamento del condominio ogni condomino assente, dissenziente o astenuto può adire l’autorità giudiziaria chiedendone l’annullamento nel termine perentorio di 30 giorni”), bensì potendo far valere la contestazione in qualsiasi momento.
La sentenza della Cassazione di ieri, causa ragioni di inammissibilità, lascia scoperte altre due questioni degne di nota. La prima ha a che fare con il tasso legale varato dal giudice rispetto al quale, non essendo offerti chiarimenti alcuni, ci si domanda se, annullata la maxi sanzione assembleare, possa subentrare quello leggermente più basso (del 12%) previsto dallo statuto consortile, nonostante la circostanza non fosse stata contestata nel giudizio di merito. La seconda diatriba che sembra rimanere insoluta riguarda invece la compatibilità del tasso fissato dallo statuto qualora venga oltrepassato il limite soglia degli interessi usurari (legge108/1996).
A ridosso dell’entrata in vigore delle riforma che tocca proprio il condominio (legge 220/2012), pienamente legittimante le sanzioni per violazione al regolamento condominiale, la sentenza 10196/2013 scaturita ieri fa appello ad un principio fondato sull’unanimità il quale potrebbe arrivare ad incidere persino sul sistema dispositivo, rimasto aspecifico nel testo di riforma, di tutte le sanzioni.
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