Viene da chiedersi se disposizioni di tal genere siano compatibili con la Costituzione o, quanto meno, se siano costituzionalmente orientate, se cioè, pur ammessa la loro legittimità costituzionale, siano in grado di attuare pienamente lo spirito e la ratio propri dei principi costituzionali.
Un limite di tal genere, certamente, non si rinviene nelle disposizioni costituzionali, che sono improntate ad una logica opposta volta, al contrario, alla rimozione di ostacoli all’effettiva partecipazione di tutti i cittadini all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Così recita l’art. 3 Cost: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”
Esso sembra volerci suggerire di confidare nelle nostre capacità in quanto la Repubblica farà di tutto per consentire il pieno sviluppo della persona umana, cui necessario presupposto è la piena realizzazione delle proprie aspirazioni lavorative e professionali.
Allora perché una legge può stabilire che dopo tre giudizi negativi non siamo e non possiamo mai più essere idonei a quella professione? Le possibilità di miglioramento delle conoscenze e delle competenze sono inesauribili e, d’altro canto, sono innumerevoli le variabili temporanee che possono pregiudicare il buon esito di una prova concorsuale: perché dunque, dopo 3 insuccessi, si è ritenuti definitivamente inetti a quel lavoro?
Il Costituente non sembra pensarla allo stesso modo, confidando al contrario nelle capacità di progresso e di sviluppo della persona. Compito della Repubblica è, infatti, quello di favorire la piena realizzazione personale, anche e soprattutto nel mondo del lavoro, non certo quello di porvi un limite.
Stabilisce a tal proposito l’art. 4: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.
Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.”
Può forse dirsi che tra le condizioni che rendano effettivo il diritto al lavoro rientra quel limite che non consente nemmeno la partecipazione al concorso a chi è già risultato inidoneo per tre volte?
A ciò si aggiunga il fatto che, nel concorso per magistrato, il giudizio di inidoneità può derivare da un’insufficienza relativa ad uno soltanto dei tre elaborati scritti della stessa procedura concorsuale, dato che i voti riportati nelle prove scritte non formano media tra loro: così, se si ottiene un ottimo voto, anche il massimo, in due elaborati (ad esempio, quelli di diritto civile e diritto penale), ma “N.I.” (non idoneo) nell’altro (ad es. di diritto amministrativo), ne deriva un complessivo giudizio di inidoneità; se la stessa cosa si ripete per altri due concorsi, si è “tagliati fuori” per sempre da quella professione, sulla base di soli 3 temi con giudizi negativi a fronte complessivamente di 9 fatti, di cui 6 con giudizi positivi. E ciò è, spesso, conseguenza di tracce mal formulate o poco chiare, che potrebbero, addirittura, sembrar contenere errori giuridici!
Per non parlare poi di quei casi in cui, nonostante si sia miracolosamente riusciti a superare il grosso scoglio delle prove scritte, arrivi a stroncare ogni speranza un giudizio di inidoneità nelle prove orali; e ciò a causa ad es. di un’insufficienza nella lingua straniera prescelta!
Per di più, l’art. 4 Cost. non stabilisce una generica possibilità di svolgere il lavoro che si vuole, ma riconosce un potere-dovere di lavorare concorrendo al progresso della società, ponendo come unici parametri “le proprie possibilità e la propria scelta”. Corrisponde forse ad una propria scelta l’abbandono delle proprie aspirazioni professionali, a causa di un giudizio negativo formulato da altri uomini, altrettanto fallibili, e sulla base di una valutazione comparatistica con altri candidati?
Se le proprie possibilità consentono margini indefiniti di miglioramento, perché non dare nemmeno la possibilità di verificarlo in altri e successivi concorsi per la stessa funzione?
L’art. 97 Cost., disponendo al 3° comma “Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge”, e, soprattutto, l’art. 106 Cost. (“Le nomine dei magistrati hanno luogo per concorso”) contengono norme volte a consentire l’accesso ai pubblici uffici più ampio ed equo possibile, senza favoritismi e senza restrizioni. I casi, in cui l’accesso non avviene mediante concorso, sono eccezionali.
Le norme costituzionali, dunque, sembrano ipotizzare due vie: o non è richiesto un concorso per accedere ai pubblici impieghi, compreso quello di magistrato (eccezioni stabilite da legge), o è richiesto e tanto basta (regola), senza essere posta alcuna altra condizione o tanto meno autorizzato un ulteriore limite legislativo.
Su cosa si fonda, dunque, la disposizione legislativa che limita solo a 3 possibili i giudizi di inidoneità? E perché poi 3 e non 1 o 2 o 4 o 5 ecc…ecc…? Risponde, forse, all’esigenza di limitare il numero dei partecipanti per contenere le spese organizzative e gestionali della procedura concorsuale? Ma in tal caso potrebbe valutarsi il ricorso ad altri espedienti più equi, quale, ad esempio, un minimo costo a carico di chi presenta la domanda di partecipazione al concorso.
A tali riflessioni, occorre aggiungere la considerazione che il concorso per magistrato ordinario è stato, da ultimo, reso un concorso di seconda fascia, ovverosia un concorso per il quale sono richiesti titoli ulteriori a quello della laurea: ciò presuppone un maggior grado di competenza e di expertise dei partecipanti e, dunque, una competizione concorsuale più serrata che rende più arduo il successo e che parrebbe giustificare ancor meno la definitività di un giudizio “inidoneo” avuto in tre differenti concorsi.
Infine, resta da chiedersi se può dirsi superato il limite di partecipazione di tre volte per chi ha sì preso parte a 3 procedure concorsuali di accesso alla funzione di magistrato, ma queste differiscono tra loro a seguito delle modifiche legislative apportate.
Qualche spiegazione si rende qui necessaria.
Prima delle novità introdotte dal D.Lgs. n. 160/2006 (e dalla legge 111/2007), il concorso per magistrato era essenzialmente così configurato:
- denominato “concorso per uditore giudiziario”;
- accessibile col solo titolo di laurea;
- con 2 prove scritte.
Dopo, è diventato un concorso :
- definito “concorso per magistrato ordinario”;
- di seconda fascia (per il quale non basta più il solo titolo di laurea);
- con 3 prove scritte.
A seguito di tali modifiche, può ragionevolmente sostenersi che si tratti dello stesso tipo di concorso? E, dunque, che la partecipazione al primo tipo, con esito “inidoneo”, possa cumularsi con quella/e al secondo, di pari esito, e contribuire a considerare così raggiunto quel numero massimo di possibili partecipazioni ai concorsi per magistratura?
Varrebbe, forse, la pena di sottoporre l’interrogativo ad un giudice vero, magari impugnando, dinanzi al T.A.R. competente, anche l’attuale bando di concorso per magistrato.
Ma, soprattutto, varrebbe ancor più la pena sottoporre il dubbio circa la legittimità costituzionale, sotto il profilo della ragionevolezza, di disposizioni legislative che pongono limiti massimi al numero di volte in cui si può prendere parte ad un concorso pubblico, come quello per diventare magistrato.
Nel segno dell’iniziativa “L’Italia che vorremmo”, lanciata sulle pagine di Leggi Oggi, consiglio un articolo che reca qualche proposta di modifica legislativa della procedura di selezione dei magistrati.
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