Cittadino-suddito o giusto processo? Forse qualcosa sta cambiando

In un precedente intervento[1] veniva rappresentata la necessità e l’urgenza della riforma del processo tributario, quale elemento di equilibrio e saldatura su cui poggia la fiducia del cittadino-contribuente nei confronti dello Stato-Erario.

L’articolo è stato scritto in collaborazione con il dott. Marco Anesa (Componente commissione Processo Tributario U.N.G.D.C.E.C.) ndR

Il contribuente infatti, troppo spesso, non sentendosi rassicurato da un sistema di regole vigenti farraginoso nell’ambito del processo tributario, per timore, nonostante le proprie ragioni, di una pronuncia sfavorevole e sedotto dalle agevolazioni concesse a chi presta acquiescenza/adesione agli accertamenti dell’Erario, ha finito per rinunciare al suo sacrosanto diritto di difesa, auto-comprimendolo ed accettando di pagare anche ciò che non sarebbe dovuto né in termini di capacità contributiva, né di progressività.

A conferma di quanto precede, esaminando i dati pubblicati dal MEF[2] per l’anno 2014 non si può non osservare la progressiva riduzione del contenzioso di primo grado: i ricorsi pervenuti alle Commissioni Tributarie Provinciali sono stati infatti 181.768, il 10,13% in meno rispetto al 2013 (-20.480 ricorsi), e il 13,10% in meno rispetto al 2012 (-27.412 ricorsi). Viceversa, si osserva l’incremento del contenzioso di secondo grado, riferiti quindi a controversie precedenti: gli appelli pervenuti alle Commissioni Tributarie Regionali nel 2014 sono stati 60.276, in crescita del 10,06% rispetto al 2013 (+5.511 appelli), e dell’8,45% rispetto all’anno 2012 (+4.694 appelli). I dati del MEF, in sostanza, confermano quanto era già riscontrato da professionisti e contribuenti: più adesioni e meno impugnazioni.

In questo scenario tuttavia, in attesa dell’auspicata riforma del processo tributario, si assiste sempre più di frequente a pronunce che trattano il contribuente da cittadino e non da suddito, che sono cioè dettate dalla semplice ma rigorosa applicazione della norma e non dal pregiudizio, che riconoscono le capacità, le competenze e la dignità professionale del difensore. Senza confondere, si badi, una giusta sentenza con l’automatico accoglimento del ricorso. Si tratta semplicemente di equilibrio e di giustizia. In uno Stato di diritto, è giusto che il contribuente che non ha sottratto materia imponibile veda accolta la propria impugnazione, come è altrettanto giusto che paghi nell’ipotesi opposta. Lo stesso atteggiamento dovrebbe tuttavia ispirare anche l’Amministrazione finanziaria, che ancora troppo spesso insiste con accertamenti e impugnazioni nonostante consolidata giurisprudenza di senso opposto o, addirittura, un dettato normativo contrastante.

Quanto all’andamento del processo tributario, secondo il Rapporto del MEF nel quarto trimestre 2014 sono state definite 71.921 controversie nel primo grado di giudizio, di cui il 31,56% con esito favorevole al contribuente, il 44,03% favorevole all’Ufficio[3] e la restante parte con giudizio intermedio o esito diverso; dall’analisi per valore delle controversie, il 25,47% ha avuto esito favorevole al contribuente, il 47,49% favorevole all’Ufficio e la restante parte giudizio intermedio o esito diverso.

Per quanto concerne il giudizio in appello, è aumentato il tasso di accoglimento delle impugnazioni: nel quarto trimestre 2014 sono state definite 15.422 controversie, di cui il 38,38% con esito favorevole al contribuente e il 46,17% con esito favorevole all’Ufficio; dall’analisi per valore, il 28,72% ha avuto esito favorevole al contribuente, il 28,56% favorevole all’Ufficio, con un giudizio intermedio del 39,95%.

Ciò significa che, all’esito del giudizio d’appello, vale a dire a distanza di 3-5 anni dall’accertamento, quasi il 29% delle somme accertate risultano non dovute e quasi il 40% solo parzialmente dovute (!). Questo, come noto, con il versamento di un terzo a titolo provvisorio delle maggiori imposte accertate, con costi interni e professionali non indifferenti, nonché con frequenti sospensioni di rimborsi d’imposta, che tendono a far propendere il contribuente verso la rinuncia all’impugnazione e all’auto-compressione del diritto alla difesa.

Eppure qualcosa sta cambiando.

Senza pretese di esaustività, si riporta di seguito una breve riepilogo di sentenze e orientamenti meritevoli di menzione, sintomatici di un auspicabile nuovo corso della giustizia tributaria.

Con l’Ordinanza n. 2033 del 30 gennaio 2014, la Corte di Cassazione ha sottolineato la necessità di un’esposizione delle ragioni per le quali siano state compensate le spese di giudizio (come avviene quasi per prassi): “è infatti costante indirizzo di questa Corte che, in tema di spese giudiziali (…) il giudice può procedere a compensazione parziale o totale tra le parti in mancanza di soccombenza reciproca solo se ricorrono “giusti motivi” esplicitamente indicati nella motivazione, atteso il tenore dell’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ.”.

Per quanto concerne la vexata quaestio del cd. abuso di diritto, a distanza di anni dalla sua introduzione e preso atto dell’utilizzo generalizzato parte dell’amministrazione finanziaria, la Corte di Cassazione (Sent. Cass. 27 marzo 2015, n. 6226) ha accolto il ricorso del contribuente, ritenendo che l’Agenzia delle Entrate non può limitarsi a rilevare la violazione della norma fiscale attraverso un’operazione elusiva con la quale si sia ottenuto un  indebito risparmio d’imposta, ma necessita provare il disegno elusivo, le modalità di manipolazione e di alterazione delle normative di legge: “L’Amministrazione finanziaria ha dunque l’onere di provare il disegno elusivo, nonché le modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali classici, considerati come irragionevoli in una normale logica di mercato ed utilizzati solo per pervenire a quel risultato fiscale.

Non costituisce elusione la sola scelta del contribuente di non seguire l’opzione fiscalmente più onerosa.”

Un notevole orientamento giurisprudenziale, non ancora consolidato ma sintomatico della corretta applicazione del diritto, riguarda la nullità/inesistenza giuridica degli atti cd. impoesattivi[4] affetti da vizi di notifica: trattandosi di atti autoritativi che hanno idoneità ad incidere sulla sfera giuridica del destinatario, hanno effetti costitutivi e di conseguenza sono provvedimenti recettizi, cioè per perfezionarsi devono essere validamente notificati al contribuente (Comm. trib. prov. Verbania, sez. I, 6 ottobre 2014, n. 75; Comm. trib. prov. Massa Carrara, Sent. n. 12/05/2014, dep. il 27 agosto 2014).

Ancora, una pietra miliare della giurisprudenza tributaria è costituita dalla Sentenza 18 settembre 2014, n. 19667 pronunciata dalle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione “la pretesa tributaria trova legittimità nella formazione procedimentalizzata di una “decisione partecipata” mediante la promozione del contraddittorio (che sostanzia il principio di leale collaborazione) tra amministrazione e contribuente (anche) nella “fase precontenziosa” o endo-procedimentale”, al cui ordinato ed efficace sviluppo è funzionale il rispetto dell’obbligo di comunicazione degli atti imponibili. Il diritto al contraddittorio, ossia il diritto del destinatario del provvedimento ad essere sentito prima dell’emanazione di questo, realizza l’inalienabile diritto di difesa del cittadino, presidiato dall’articolo 24 Cost., e il buon andamento dell’amministrazione, presidiato dall’articolo 97 Cost.”. Le Sezioni Unite sono dunque lapidarie sulla necessità del cd. contraddittorio endoprocedimentale, che “costituisce un principio fondamentale immanente nell’ordinamento cui dare attuazione anche in difetto di una espressa e specifica previsione normativa.”

Un ultimo filone che merita di essere citato è quello, di grande attualità, dei cd. dirigenti illegittimi. Come noto, con la sentenza n. 37/2015, la Corte costituzionale ha sancito l’illegittimità degli atti con cui sono stati nominati i dirigenti nominati in assenza di superamento del relativo concorso pubblico e di conseguenza degli atti da essi sottoscritti. La sentenza della Comm. trib. prov. di Milano n. 3222/15, è la prima pronuncia con la quale viene dichiarata la nullità di un avviso di accertamento sottoscritto da un funzionario cui erano stati conferiti incarichi dirigenziali senza concorso pubblico. A sostegno della fondatezza della tesi sull’illegittimità degli atti sottoscritti da dirigenti “decaduti”, si è inoltre prima d’ora espressa la Comm. trib. reg. di Milano con la sentenza n. 2184/13/2015,  che si aggiunge alle Comm. trib. di Frosinone (n. 414/02/2015), Brescia (n. 277/1/2015), Lecce (nn. 1789/02/2015; 1790/02/2015) e Campobasso (n. 784/3/15). Non mancano pronunce di esito opposto e l’Agenzia delle Entrate non pare ammettere il disposto della Corte Costituzionale, anzi, ha sollevato a mezzo stampa l’ipotesi della richiesta di danni per lite temeraria.

Nonostante questo, la giurisprudenza pare sempre più orientata alla rigida (e semplice) applicazione della legge, scevra da pregiudizi e da condizionamenti dettati dalle esigenze di cassa dello Stato, con l’auspicio di una svolta definitiva verso il giusto processo.



[1] L’importanza del Processo Tributario nei nuovi equilibri tra cittadini-contribuenti e fisco, 27 aprile 2015.

[2] Rapporto trimestrale sul contenzioso tributario Ottobre – Dicembre 2014, MEF, Dipartimento delle Finanze, Direzione della Giustizia Tributaria, Marzo 2015.

[3] Agenzia delle Entrate, Agenzia del Territorio, Agenzia delle Dogane, Equitalia, Enti territoriali e diversi.

[4] Cfr. art. 29, D.Lgs. 78/2010, convertito dalla L.122/2010.

Giancarlo Falco

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