Chi sono le vittime della crisi?

Ci troviamo in questo momento in potenza di risollevarci come Paese. Le previsioni dell’Ocse, vecchiotte ma che vedono tuttora l’uscita del nostro Paese dalla violenta crisi economica entro la fine del 2013, non sono state ancora smentite. Se mai risulteranno vere non dovremo lasciarci ingannare e non distinguere la differenza tra “uscita dalla crisi” e “sviluppo”, perché i tempi di uscita europei dalla crisi del debito (come, probabilmente, i libri di Storia la chiameranno) sono più lenti di ogni altro Stato non europeo investito dalla Crisi, e noi italiani non siamo la Germania.

Di sicuro quelle che, di questa crisi, verranno riconosciute come una delle prime vittime, saranno 5 o 6 giovani generazioni, su cui gli effetti nefasti della crisi non solo sono difficili da misurare, nella moltitudine di grafici e modelli che la politica utilizza per compiere le proprie decisioni, ma sono anche latenti nella nostra società, dunque non apprezzabili immediatamente. Famiglie non ancora nate, coppie non ancora nate, progetti di vite non ancora neanche impostati. Motivo per il quale non è campato in aria una sorta di riconoscimento per le generazioni che sono passate, nel loro momento più debole, lungo questa crisi.

Terminare qui l’elenco delle vittime però non risulterebbe esaustivo della domanda iniziale, visto che non solo i danni materiali subiti dalle giovani generazioni devono essere tradotti, anche solo filosoficamente, in materiale oggettivo, ma anche perché – e non vale da consolazione – il numero delle vittime della crisi è molto più nutrito.

Una certa visione novecentesca della politica italiana, così martellata dalla crisi che fatica seriamente ora a mostrarsi lucida, il suo “indotto”, di cui un certo modo vetusto di fare l’economia era conseguenza, come le altre negatività che germogliano in una società fatta in questo modo, sono azzerati completamente ed alla disperata ricerca di nuova linfa. Le nuove regole che contraddistinguono le materie della trasparenza, della fiducia, del lavoro, sono indicative della società più complicata che ci troveremo quando ritorneremo allo sviluppo (o, come dice Napolitano, al Boom).

Gli Stati Uniti di America, i veri autori del nostro boom economico degli anni ’60, grazie alle ingentissime sovvenzioni che il Piano Marshall ha elargito anche all’Italia del dopoguerra, hanno ricominciato a vedere salire gli indici occupazionali dopo due anni di crisi, di cui uno ricade sotto l’egida di George W. Bush e l’altro sotto l’egida di Barack Obama.

In Europa, invece, non siamo stati così reattivi come lo sono stati gli USA, o il resto del mondo anglosassone o il Sudamerica (che negli anni ’80 era indicato in Italia, assieme all’Africa, come parte del terzo mondo). Ci siamo letteralmente impantanati nella reciproca sfiducia e (ma solo in alcuni casi) nella peggiore incompetenza della politica.

Proprio qualche giorno fa il Premier inglese, David Cameron, sferrava un attacco più simile ad una legnata secca che non all’inizio di una battaglia politica: diceva Cameron che “l’attuale status quo dell’U.E. è inaccettabile” per poi annunciare che “entro il 2017 si avrà il referendum in Great Britain” per decidere, eventualmente, di abbandonare l’E.U., con tanti saluti, in quella evenienza, ad un mondo che si era reso troppo ideologico nella sua fenomenologia, che è l’Europa come progetto ormai antico che ha animato la ricostruzione del vecchio continente a seguito della II Guerra Mondiale.

Perché ciò che non si può negare ora è il fatto che solo l’Europa stia facendo fatica a riprendersi (in Spagna c’è una manifestazione al giorno contro la politica del rigore, in Francia, anche già su Facebook, si nota una certa isteria collettiva generazionale, dovuta al fatto che la domanda di lavoro da parte delle aziende non è qualitativamente comparabile con quanto atteso dai neo laureati o neo diplomati).

Al bravo Cameron è normale che non abbia avuto il coraggio di rispondere nessuno dei depositari dell’attuale linea politica dell’UE, visto che argomentare contro ciò che ha detto significa dimostrare che la UE tenga a non lasciare lo status quo che vuole un’Europa di Stati membri che ricevono dispetti da altri Stati membri, un Europa da asilo nido, che non cresce neanche. È normale che nessuno abbia avuto il coraggio di rispondere né affermativamente né negativamente alla bordata lanciata dal Premier inglese.

La vittima principale di questa crisi, sono buone, rebus sic stantibus, le probabilità che alla fine risulterà l’Europa ed una certa visione della stessa. Se, mentre il vecchio terzo mondo manda satelliti in orbita e si appresta ad ospitare i mondiali ed il Papa, se la produttività cinese umilia tranquillamente ogni europeo, se una parte dell’Unione (?) stringe come un sadico le morse attorno agli altri Stati, forse in cerca di riscatto, tutto si potrà dire che c’è al di sopra del livello politico nazionale, meno che un’unione.

Solo per dare saggio di quanta poca unione ci sia nella sostanza delle culture dei vari Stati europei si può pensare tranquillamente che se solo avessimo gestito con responsabilità la politica monetaria europea (e non più nazionale) non saremmo potuti più andare a fare la vacanza estiva a Miami. E cos’altro più? Forse nulla più.

 

Gregorio Marzano

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