Nel caso in esame, le parti del giudizio avevano stipulato un contratto di prestazione d’opera intellettuale, sussumibile nell’ambito della disciplina fissata dagli articoli 2229 e seguenti del Codice Civile, avente ad oggetto, per il professionista, “la prestazione di attività di anamnesi, diagnosi, oltre che di informazione e consulenza e assistenza”, con la previsione della durata di due anni.
In seguito al recesso unilaterale posto in essere dal paziente, il medico ricorreva in giudizio per ottenere la dichiarazione di risoluzione del contratto per fatto e colpa dell’assistito e ottenere la conseguente condanna al risarcimento del danno subito.
In primo grado, il tribunale pronunciava la risoluzione del contratto per fatto e colpa del convenuto, che condannava al risarcimento del danno, liquidato in misura inferiore a quanto denunciato dall’attore, con la motivazione che l’apposizione del termine di due anni del contratto integrava deroga espressa al recesso ad nutum di cui all’articolo 2237 del Codice Civile. Di conseguenza, doveva ritenersi inadempiente il convenuto che aveva operato il recesso.
La sentenza, impugnata dal paziente, era riformata in appello. La Corte territoriale rigettava la domanda proposta dall’attore in primo grado, in quanto riteneva che il cliente avesse legittimamente esercitato il diritto di recesso dal contratto previsto dal primo comma dell’articolo 2237 del Codice Civile, “non potendo ritenersi tale facoltà esclusa per effetto della previsione pattizia di un termine di durata del contratto”. A giudizio della Corte, è necessario che dal contratto emerga una precisa volontà in tal senso, non potendo condividersi alcun automatismo interpretativo, come invece affermato nel precedente grado di giudizio.
In particolare, nei contratti di prestazione intellettuale stipulati tra medico e paziente assume rilevanza fondamentale l’intuitus personae ovvero la fiducia posta a base della collaborazione tra medico e paziente, il quale, in questo caso, aveva riposto fiducia ad un medico personale ed esclusivo per la cura e guarigione da una malattia rara.
Il professionista proponeva ricorso per Cassazione, denunciando violazione e falsa applicazione dell’articolo 2237 del Codice Civile, per avere i giudici ritenuto non sufficiente ad escludere il recesso ad nutum la previsione di un termine di durata.
La Suprema Corte, chiamata a dirimere la contrapposizione tra decisioni dei due precedenti gradi di giudizio, ha chiarito come “ai sensi dell’articolo 2237 primo comma cod. civ., il cliente può recedere ad nutum dal contratto di opera professionale, mentre al prestatore è consentito il recesso soltanto per giusta causa: la facoltà di scioglimento è accordata al cliente in considerazione della natura fiduciaria del rapporto caratterizzato dall’intuitus personae. Certamente è legittima l’apposizione di un termine di durata del contratto, così come è derogabile pattiziamente la facoltà di recesso ad nutum del cliente”.
“Occorre verificare – continua la Corte – se, in presenza di una durata convenzionale, il rapporto sia suscettibile di anticipato scioglimento per effetto del recesso ad nutum da parte del cliente ovvero se la previsione di un termine di durata integri rinuncia alla facoltà di recesso”.
Riprendendo un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, i giudici di Cassazione giungono ad affermare che l’apposizione di un termine ad un rapporto di collaborazione professionale continuativa può essere sufficiente ad integrare la deroga pattizia alla facoltà di recesso così come disciplinata dalla legge, ma è necessario che dal complessivo regolamento negoziale possa inequivocabilmente ricavarsi la volontà delle parti di vincolarsi per la durata del contratto, vietandosi reciprocamente il recesso prima della scadenza del termine finale.
L’apposizione del termine può avere due funzioni: fissare la durata massima del rapporto; escludere il recesso ad nutum del cliente prima di tale data. La volontà delle parti deve essere ricostruita tenendo conto dell’intero regolamento contrattuale, evitando automatismi interpretativi.
Alla luce di ciò, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, confermando la sentenza impugnata, sentenza in cui i giudici avevano applicato correttamente le regole interpretative, ricostruendo la volontà delle parti in base a tutte le disposizioni contrattuali ed escludendo, in relazione anche alla particolare natura della prestazione professionale, che il cliente, con l’apposizione del termine, avesse rinunciato alla facoltà di recesso.
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