In qualità di medico di guardia, la donna si è resa colpevole, ignorando le sollecitazioni che le erano state avanzate più volte dallo stesso primario dell’istituto e nonostante le richieste di intervento da parte dell’ostetrica, di aver rifiutato di prestare assistenza ad una paziente che aveva precedentemente abortito, negandole la visita e le corrispettive cure e così ponendola a rischio di emorragia.
A nulla sono serviti persino i consecutivi ordini di servizio che sono stati impartiti alla dottoressa, per via telefonica, sia dal primario che dal direttore sanitario. L’ostinazione mostrata nel rifiuto di visita ha costretto lo stesso primario a recarsi in ospedale per un intervento d’urgenza. Con riferimento ad una interpretazione estensiva della normativa in materia (l’articolo 9 della legge 194 sull’aborto), il medico aveva opposto il fatto che l’obiettore di coscienza risultasse esonerato dal dovere di intervenire durante tutto il procedimento di interruzione volontaria di gravidanza, inclusa la fase di espulsione del feto, e sino al momento espulsivo della placenta.
A fronte della giustificazione, la difesa dell’imputata ha fatto opposizione nel ricorso contro la sentenza di condanna, già emessa in Appello, nel dicembre scorso, dalla Corte di Trieste. La sesta sezione penale della Suprema Corte, di contro, tramite la sentenza depositata ieri, fornisce oppositive interpretazione della legge 194, spiegando come si “esclude che l’obiezione possa riferirsi anche all’assistenza antecedente e conseguente all’intervento”, legittimando, sì, il medico obiettore al diritto di rifiutare la determinazione (chirurgica o farmacologica) dell’aborto, “ma non di omettere di prestare assistenza prima o dopo” in quanto il medesimo deve essere tenuto a rispettare il vincolo che lo obbliga, in qualità di medico, ad “assicurare la tutela della salute e della vita della donna, anche nel corso dell’intervento di interruzione di gravidanza”.
Conseguenza diretta della pronuncia della Cassazione è dunque quella che sottolinea come il diritto di obiezione di coscienza non esoneri il medico “dall’intervenire durante l’intero procedimento”. Nello specifico, si deduce come “il diritto dell’obiettore affievolisce, fino a scomparire, di fronte al diritto della donna in imminente pericolo a ricevere le cure per tutelare la propria vita e la propria salute”.
Giudicando il caso specifico di Pordenone, la Corte ha dunque ritenuto “pienamente integrato” il reato integrante l’omissione degli atti d’ufficio, in virtù della costatazione evidente che l’imputata avesse deliberatamente declinato “un atto sanitario, peraltro richiesto con insistenza da personale infermieristico e medico, in una situazione di oggettivo rischio per la paziente”.
L’obiezione di coscienza rimane un diritto comunque valido: tramite la sentenza della Cassazione non si vuole infatti negare la possibilità di rifiutare l’ottemperanza di un dovere imposto dall’ordinamento medico, lasciando pertanto la libertà di sottrarsi all’intervento da parte di chi ritiene che gli effetti derivanti dall’adempimento siano contrari alle rispettive convinzioni ideologiche, morali o religiose.
Tuttavia, si viene a ribadire un principio saldo ed inviolabile nei confronti del quale tutti i medici, obiettori compresi, sono tenuti ad uniformarsi: l’interdizione di opporre il rifiuto d’intervento in caso di stato di necessità, ovvero qualora la donna sia in pericolo di vita. In questo caso si ritiene dunque lecito vincolare anche l’obiettore di coscienza all’obbligo, in questo caso morale ancora prima che deontologico dato che proprio sulla convinzione morale dovrebbe fondarsi l’obiezione, di completare la procedura di aborto se questo risulta indispensabile ai fini della vita della paziente stessa.
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