Caso Moncler: bene ma i providers non sono sceriffi.

Redazione 07/11/11
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La premessa è che ogni volta che dei bit di informazione online vengono restituiti al pubblico della Rete dopo essere stati illegittimamente oscurati, in assenza di adeguati presupposti, da parte dell’Autorità giudiziaria non ci si può che rallegrare e cantare vittoria, riconoscendo, peraltro, a chi – come le associazioni italiane dei providers – si è battuto per tale risultato la gratitudine che meritano.

La Procura della Repubblica di Padova aveva, evidentemente, commesso un macroscopico errore – ed ad onor del vero occorre riconoscere che lo stesso ufficio del pubblico Ministero lo ha pubblicamente ammesso nel corso del procedimento di dissequestro – nell’esigere che i providers italiani dirottassero gli utenti diretti ai contenuti di quasi 500 siti altrove solo perché, qualcuno – e non un Signor Nessuno (cfr. commento di Dino Bortolotto su chi è il denunciante Franco Toniolo) – aveva loro segnalato che attraverso alcuni – non meglio identificati – siti internet contraddistinti da domini contenenti l’espressione “moncler”, forse, venivano venduti prodotti contraffatti.

Come ricorda Alessandro Longo in un bel pezzo su Repubblica, peraltro, quello di Padova non è, sfortunatamente, un caso isolato e, in Italia, le Procure dal “grilletto facile” – quello sulla pistola degli oscuramenti – sono, malauguratamente molte, anzi, troppe.

Ottimo, quindi, che il Tribunale del riesame, abbia richiamato all’ordine la Procura e dissequestrato i siti e ottimo anche che lo abbia fatto su istanza delle associazioni italiane dei providers giacché come, bene ricorda Fulvio, l’interesse di tali associazioni a richiedere il “dissequestro” di siti oscurati è, sin qui, stato un fatto tutt’altro che pacifico.

Attenzione però, perché come insegnano gli antichi, molte vittorie portano in sé il germe di una sconfitta.

A costo di risultare impopolare, dunque, occorre rilevare che non tutto quello che è accaduto nel corso di questa vicenda è naturale né auspicabile o, almeno, non lo è, a mio avviso.

Bene, infatti, che i providers rilevino dinanzi al tribunale del riesame che non può e non deve essere loro assegnato il compito di fare gli “sceriffi della Rete”, sostituendosi sistematicamente alle forze dell’ordine e che un provvedimento di sequestro non può essere trasformato in un’obbligazione imposta ai gestori delle autostrade dell’informazione di impedire agli utenti di percorrerle in certe direzioni.

E’ una questione che prescinde dalla sussistenza o meno di sufficienti elementi di prova a supporto del carattere illecito svolto su questo o quel sito.

E’ una questione di metodo e di principio che è giusto venga affrontata dai gestori delle autostrade dell’informazione perché riguarda il loro lavoro.

Oscurare un sito imponendo ai provider delle obbligazioni negative di filtraggio non significa sequestrarlo e la legge non consente all’Autorità giudiziaria l’adozione di tali provvedimenti previsti – ed è stato, storicamente, un errore accettare che ciò accadesse – per ipotesi del tutto particolari come la pedopornografia ed il gioco d’azzardo.

Meno bene, invece, che i providers si mettano a discutere con l’Autorità giudiziaria della sussistenza o meno di sufficienti elementi a supporto dell’illiceità dell’attività svolta su questo o quel sito e che agiscano – come si legge oggi su decine di siti – a tutela degli interessi dei propri utenti e, più in generale, di quelli della Rete.

L’intero provvedimento con il quale il Tribunale del riesame ha disposto il dissequestro dei 500 nomi a dominio riposa proprio su considerazioni di questo tipo: secondo i Giudici il sequestro era stato adottato – come denunciato dalle associazioni dei providers – in assenza di adeguate prove circa il carattere illecito dei siti oscurati e senza, addirittura, che nessuno si fosse peritato di verificarne il contenuto ovvero sulla sola base della circostanza che i nomi a dominio contenevano l’espressione “moncler”, corrispondente al marchio registrato del denunciante.

Quello di vigilare sull’operato dell’Autorità Giudiziaria e sulla circostanza che quest’ultima non travolga i diritti degli utenti e, in particolare, quello alla libertà di manifestazione del pensiero [ndr: nel caso dei blog oscurati] e quello alla libertà di impresa [ndr: nel caso dei siti di e-commerce] è  un ruolo che non compete alle associazioni di imprenditori che operano nel mercato dei servizi di telecomunicazione e poco importa che, in questo caso – grazie al carattere “illuminato” delle persone che le presiedono – sia stato esercitato “a fin di bene” e nell’interesse comune ad una Rete più libera.

Gli sceriffi, nelle contee americane così come nella storia, non sono solo chiamati ad eseguire provvedimenti restrittivi della libertà ma più in generale a garantire il rispetto delle leggi a tutela dei cittadini (inclusa la loro libertà).

Quando si dice che non si vuole che gli internet services provider siano sceriffi della Rete, non si intende solo che non siano loro affidati compiti censori ma anche compiti diversi di tutela dei diritti e degli interessi dell’ecosistema telematico.

Che le associazioni che rappresentano gli ISP si trasformino in sceriffi – anche se in senso buono – della Rete e si preoccupino di garantire che la giustizia funzioni in modo corretto è uno scenario assai poco esaltante: è, evidente, infatti, che le associazioni di categoria non potranno – e del resto già non lo fanno – schierarsi dalla parte degli utenti in ogni ipotesi nella quale i loro diritti siano minacciati da “anomali” ed illegittimi provvedimenti di sequestro e che, pertanto, ci saranno utenti che potranno contare sull’appoggio degli ISP ed utenti che non potranno.

Si tratta di uno scenario nel quale una buona azione rischia di trasformarsi in un elemento discriminatorio e, soprattutto, di mettere in discussione uno dei principi fondamentali dell’ecosistema telematico: l’intermediario della comunicazione riveste un ruolo terzo e neutrale rispetto ai contenuti che ospita e/o rende accessibili ed è legato, esclusivamente, ad un rapporto di natura contrattuale ai propri utenti.

Tradire questo principio rischia di avere un prezzo elevato per tutti: per gli ISP, perché specie in un Paese restio come il nostro a riconoscere loro la neutralità che meritano, rischia di ampliare il novero delle ipotesi nelle quali saranno chiamati a rispondere e per l’ecosistema telematico perché le dinamiche di mercato e quelle di circolazione delle idee e dei contenuti rischiano di essere influenzate da un fattore che non è detto produca sempre risultati auspicabili.

Se la giustizia in relazione alle “cose della Rete” non funziona e servono “controllori” dell’Autorità giudiziaria, legittimati ad agire nell’interesse della corretta applicazione della legge e/o a tutela degli utenti, occorre pensare all’attribuzione di tali ruoli a figure terze: un ufficio del difensore dei diritti civili in Rete, magari.

I più sinceri complimenti e ringraziamenti, dunque, all’Associazione italiana internet providers e all’Assoprovider per aver restituito alla Rete qualche bit di informazione.

Il provvedimento di Padova andava impugnato ma, la prossima volta, nel farlo, varrebbe la pena – a costo di perdere – di parlare solo di metodo: non si sequestra, obbligando un ISP a chiudere un’uscita dell’autostrada dell’informazione.

Il resto è affare dei titolari dei siti e/o degli autori dei contenuti.

Redazione

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