In attesa dei “tempi supplementari” all’Aja, presso la Corte Internazionale di Giustizia, l’Italia “incassa” così il terzo rifiuto.
Ma cosa prevedono esattamente gli obblighi sanciti dal Trattato di estradizione siglato tra Italia e Brasile nel 1989?
Prima un pò di storia. La lunga battaglia per riportare Battisti in Italia ha assunto negli anni contorni ed esiti assolutamente incerti. Condannato in Italia all’ergastolo con sentenza definitiva per quattro omicidi, fuggito dapprima in Messico, si stabilisce successivamente in Francia, beneficiando, come molti altri terroristi, del diritto d’asilo previsto dalla “dottrina Mitterand”. Dopo una prima richiesta di estradizione non accolta, con l’avvento di Chirac, il governo francese emana un decreto di estradizione, divenuto definitivo con la decisione del Consiglio di Stato del 18 marzo 2005.
Ma ancora una volta Battisti riesce a fuggire: alla fine del 2004 entra con un passaporto falso in Brasile e alle autorità brasiliane l’Italia avanza una nuova richiesta di estradizione il 18 marzo 2007.
Ed ecco la prima sorpresa! Sebbene il 28 novembre 2008, il Comitato nazionale brasiliano per i rifugiati (CONARE) abbia respinto la richiesta di attribuzione dello status di rifugiato politico, presentata da Battisti, per insussistenza dei requisiti oggettivi indicati dalla lei n. 9.474/97, con cui il Brasile ha dato attuazione alla Convenzione di Ginevra del 1951 sullo status dei rifugiati, il Ministro della giustizia brasiliano, disattendendo tale decisione, con decreto adottato il 13 gennaio 2009, ha concesso a Battisti lo status di rifugiato politico: 0-1!
I colpi di scena in questa vicenda non mancano. Nella seduta del 18 novembre 2009, il Supremo Tribunal Federal dichiarava nullo il provvedimento di riconoscimento dello status di rifugiato, concedendo l’estradizione richiesta dall’Italia e autorizzando il Presidente della Repubblica brasiliana a consegnare Cesare Battisti all’Italia. Poiché tale pronuncia faceva salve le competenze del Presidente, lo scorso 31 dicembre Lula ha reso pubblica la propria decisione – conforme al parere dell’Avvocatura generale dello Stato – e, richiamando l’art. 3, lettera f), del Trattato bilaterale, ha negato la richiesta di estradizione: 0-2!
Dalla lettera inviata dall’ex Presidente del Brasile al nostro Presidente Napolitano leggiamo che “…la concessione della condizione di rifugiato al signor Battisti è un atto di sovranità dello Stato brasiliano. La decisione è basata nella Costituzione brasiliana (articolo 4°, X) nella Convenzione del 1951 delle Nazioni Unite relativa allo Statuto dei Rifugiati e nella legislazione brasiliana (Legge 9.474/97)…”.
Ebbene, la Lei n. 9.474/97, relativa all’attuazione della Convenzione sullo status dei rifugiati del 1951 non contiene alcun riferimento agli obblighi del Brasile nei confronti dell’Italia ai sensi del Trattato bilaterale di estradizione entrato in vigore il 1 agosto 1993.
L’attribuzione dello status di rifugiato politico si baserebbe, quindi, sull’accertamento di un preteso fumus persecutionis in danno dell’estradando. Nel caso Battisti, poi, le condanne emesse dai tribunali italiani, inquadrate nel contesto storico degli “anni di piombo”, hanno indotto a ravvisare elementi tali da ingenerare un non comprensibile e condivisibile “fondato timore di persecuzione in ragione delle opinioni politiche del richiedente”.
Quanto, poi, alle riserve secondo cui i processi a carico di Battisti sarebbero stati condotti in modo non conforme ai parametri del giusto processo, basti ricordare la decisione del 12 dicembre 2006 resa dalla seconda sezione della Corte europea dei diritti dell’uomo, Cesare Battisti c. France, ric. n. 28796/05, con la quale la Corte ha respinto, ritenendolo manifestamente infondato, il ricorso presentato da Battisti contro il decreto di estradizione emanato dalle autorità francesi nel 2004.
In termini analoghi si era espresso anche il Conseil d’Etat il quale – tenendo conto non solo della legislazione nazionale ma anche degli obblighi derivanti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dal Patto sui diritti civili e politici del 1966 – con decisione resa il 18 marzo 2005, aveva respinto il ricorso di Battisti in ragione dell’assoluta conformità dei processi celebrati in Italia con il disposto dell’art. 6 della CEDU.
E’, quindi, da escludere che si stia consumando in danno di Battisti un qualunque atto di tipo persecutorio atteso che una delle clausole di esclusione previste dalla Convenzione di Ginevra del 1951 – contenuta nell’art. 1, par. F, lett. b) – prevede che le disposizioni della medesima non si applicano alle persone di cui vi sia serio motivo di sospettare che abbiano “commesso un crimine grave di diritto comune fuori dal Paese ospitante”.
Si tratta di specifiche disposizioni che sottraggono al campo di applicazione della Convenzione determinate categorie di soggetti ritenute non meritevoli di protezione internazionale indipendentemente dalla sussistenza dell’elemento persecutorio.
Anche la Lei 9.474/1997 contiene una disposizione del tutto analoga: l’art. 3, par. III, infatti, esclude espressamente dal beneficio dello status di rifugiato quegli individui che abbiano commesso un crimine “hediondo” o che abbiano partecipato a reati di natura terroristica.
I dubbi sollevati dalla decisione con la quale il Brasile ha riconosciuto lo status di rifugiato politico a Cesare Battisti sono duplici.
Dubbia non è solo la conformità di tale decisione con l’art. 3, par. III della Lei n. 9.474/1997, nella parte in cui fa riferimento alle attività terroristiche quale causa ostativa al riconoscimento della condizione di rifugiato, ma anche quella con la Costituzione della Repubblica federale del Brasile che annovera tra i principi ispiratori della politica internazionale dello Stato il ripudio del terrorismo (art. 4, par. VIII).
Inoltre, la natura politica del reato per il quale è stata richiesta l’estradizione costituisce, nel Trattato bilaterale del 1989 una circostanza giustificativa di un eventuale rifiuto dello Stato richiesto. L’art. 3, lett. e), stabilisce, infatti, che l’estradizione non sarà concessa “se il fatto per il quale è domandata è considerato dalla parte richiesta reato politico”.
Non solo.
Nel trattato è altresì previsto che l’estradizione possa essere rifiutata quando la Parte richiesta “ha serie ragioni per ritenere che la persona richiesta verrà sottoposta ad atti persecutori o discriminatori per motivi di razza, di religione, di sesso, di nazionalità, di lingua, di opinioni politiche o di condizioni personali o sociali” (art. 3, lett. f) o, ancora, quando “la Parte richiesta abbia fondato motivo di ritenere che l’estradando verrà sottoposto a pene o trattamenti lesivi dei diritti umani fondamentali” (art. 5, par. 2).
L’art. 5 del Trattato bilaterale legittima, quindi, il rifiuto di estradizione “se per il fatto per il quale é domandata, la persona richiesta é stata o sarà sottoposta ad un procedimento che non assicura il rispetto dei diritti minimi di difesa”, specificando che l’essersi il processo svolto in contumacia della persona richiesta non costituisce di per sé motivo per il rifiuto.
In definitiva, nemmeno questa disposizione offre una valida giustificazione per il rifiuto brasiliano di estradare Battisti.
Infatti, la natura saldamente democratica del nostro ordinamento costituzionale e l’accertata assenza di una violazione dei parametri dell’equo processo nella vicenda giudiziaria di Battisti, consentono di escludere che lo stesso possa andare incontro ad atti di tipo persecutorio da parte delle autorità italiane tali da giustificare il rifiuto dell’estradizione alla stregua dell’art. 3, lett. f) del Trattato bilaterale.
Forse, per capire le vere ragioni del rifiuto brasiliano bisognerebbe meditare sulle dichiarazioni di Luis Dulci, segretario generale della presidenza brasiliana, il quale ha più volte messo in relazione il caso Battisti con quello di Salvatore Cacciola, un banchiere italo-brasiliano condannato per reati finanziari, non estradato dall’Italia: “Ricordo che quando l’Italia si oppose all’estradizione di Cacciola in Brasile ci furono molte proteste…“
Ma – ci si chiede – fino a che punto questo mancato do ut des è in grado di minare (ancora una volta!) la credibilità internazionale delle istituzioni italiane?
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