La Suprema Corte ha negato le attenuanti, vista la gravità del fatto, ai condannati, non solo ma ha rilevato che essi hanno “distorto dati rilevanti, per il seguente sviluppo delle indagini, sin dalle prime ore successive all’uccisione del ragazzo”. E’ stata definita una sentenza storica dall’avvocato Fabio Anselmo, legale della famiglia Aldovrandi, poiché si rovescia uno stereotipo consolidato, ossia “la possibilità di censurare e sanzionare un intervento di polizia violento e al di fuori del diritto”.
E’ opinione dei supremi giudici che è da”escludere – come invece sostenevano i legali degli agenti – che la morte del ragazzo sia dovuta alla sindrome da ‘delirio eccitato’ o alla assunzione di sostanze stupefacenti”, visto che, come appurato dalla perizia del massimo esperto di morti improvvise, il professor Di Thiene, l’esito letale era determinato dalla “pressione” esercitata dai poliziotti.
La violenza usata usata “aveva fatto sì che il cuore venisse schiacciato”, causando “infiltrazione emorragica e la cessazione della conduzione dello stimolo elettrico dagli atri ai ventricoli”. Inoltre “lo stato ipossico in cui versava il giovane – prosegue la Cassazione, demolendo ogni tentativo di ricostruzione alternativa del decesso – era comunque riferibile alla condotta realizzata dagli agenti, i quali avevano tenuto schiacciato il corpo del ragazzo contro il terreno, con manovre idonee ad innescare una asfissia posizionale”.
Secondo la Suprema Corte “lo stato di agitazione in cui versava il ragazzo”, che era stato fermato per gli schiamazzi fatti per strada, da solo, in via Velodromo, “avrebbe imposto un intervento di tipo dialogico e contenitivo”. I poliziotti della pattuglia ‘Alpha 4’ invece “sferrarono numerosi colpi contro Aldrovandi, non curanti delle sue invocazioni di aiuto” e la “serie di colpi proseguì anche quando il ragazzo era stato fisicamente sopraffatto e quindi reso certamente inoffensivo”. “Segatto lo colpiva alle gambe con il manganello, Pontani e Forlani lo tenevano schiacciato a terra, mentre Pollastri lo continuava a percuotere”, ricorda la Cassazione evidenziando che gli agenti “posero in essere una violenta azione repressiva nei confronti di un ragazzo che si trovava da solo, in stato di visibile alterazione psicofisica”.
Gli agenti, dunque, si sono spinti oltre la liceità dei “mezzi di coazione fisica consentiti dall’ordinamento per vincere una resistenza all’Autorità”. I quattro hanno adottato “condotte specificamente incaute e drammaticamente lesive” e la “consapevolezza di agire in cooperazione imponeva a ciascuno di interrogarsi sull’azione dei colleghi, se del caso agendo per regolarla, moderandola”. Invece la “reciproca vigilanza è mancata”, il pestaggio è proseguito “senza dissenso da parte di alcuno, sino all’arrivo dei Carabinieri e del personale di soccorso”. Pessimo, poi, il “comportamento processuale” degli imputati che hanno “anche omesso di fornire un contributo di verità al processo da reputarsi doveroso per due pubblici ufficiali”.
Infine la Cassazione ricorda le “manipolazioni delle risultanze investigative pure realizzate da funzionari responsabili della Questura di Ferrara”. Lo scorso 9 luglio la Corte di Appello di Bologna ha confermato le condanne per l’ispettore Marco Pirani in servizio alla Procura di Ferrara, e per l’operatore del 113 Marcello Bulgarelli, accusati nel processo sui depistaggi delle indagini.
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