Per i non calciofili, basti ricordare che il Cagliari dallo scorso anno è la squadra peregrina della Serie A, senza una dimora fissa. Un’odissea cominciata con la decisione di abbandonare lo storico Stadio Sant’Elia nel capoluogo sardo e il conseguente – ma geograficamente assurdo – trasloco per le gare casalinghe al “Nereo Rocco” di Trieste.
Per la stagione appena cominciata, i rossoblu hanno optato per l’impianto in costruzione a Quartu Sant’Elena, senza ancora ottenere il via libera per l’ingresso degli spettatori, non essendo ancora ultimati i lavori. Domenica, il presidente del Cagliari Massimo Cellino si è infischiato della disposizione, invitando i tifosi cagliaritani a raggiungere lo stadio, dove avrebbero trovato comunque i cancelli aperti: una sortita che non ha incontrato la benevolenza delle istituzioni, che, preso atto della mano ferma del vertice societario, hanno ordinato la sospensione del match con la Roma dopo un lungo summit nella notte di sabato.
Ha ragione l’allenatore giallorosso Zdenek Zeman a sostenere che certe cose succedono solo in Italia. Ora, in conseguenza di un evento da terzo mondo calcistico, è arrivato lo 0-3 a tavolino per la squadra capitolina, che aveva presentato ricorso in base all’articolo 17, comma 1 del codice di giustizia sportiva, dove si sancisce: “La società ritenuta responsabile, anche oggettivamente, di fatti o situazioni che abbiano influito sul regolare svolgimento di una gara o che ne abbiano impedito la regolare effettuazione, è punita con la perdita della gara stessa con il punteggio di 0-3”.
Intanto, proprio in queste ore, è stato il presidente della Lega calcio Maurizio Beretta a lanciare un nuovo appello: “Fate presto, ci sono le condizioni per fare una buona legge che ci consenta di fare un salto di qualità. Approviamo la norma”.
Meno fiducioso si era però dimostrato, la settimana scorsa, quasi con istinto preveggente, il presidente della Federcalcio Giancarlo Abete, che, parlando della legge mai arrivata, aveva dichiarato: “Se ci sono le condizioni si approvi. Se non ci sono, ci si metta una pietra sopra. Il fatto di attendere la legge é sbagliato”.
Abete aveva anche riavvolto il nastro dell’infinito iter legislativo, ricordando come l’embrione del testo incagliato al Senato fosse nato addirittura nel periodo in cui l’Italia si candidava a ospitare gli Europei appena disputati in Ucraina e Polonia. Si tratta, calendario alla mano, dell’ultima parte del 2005: un’era geologica fa, calcisticamente ed economicamente parlando, prima dell’annozero di Calciopoli e della crisi finanziaria che sta trascinando nel baratro anche le più quotate società italiane.
Oggi, a distanza di sette anni, la legge non c’è ancora: si è arrivati a un’approvazione da parte della Camera lo scorso luglio, dove la legge è stata messa nelle nelle mani del Senato, dove è rimasta, silente, fino a oggi.
Intanto, negli ultimi anni non è mancato qualche palliativo d’urgenza come la tessera del tifoso o l’obbligo dei tornelli. Rimedi che hanno prodotto gli unici effetti di schedare indistintamente i tifosi come potenziali criminali, rendendo difficilissima la vita ai meno avvezzi, in primo luogo le famiglie, le quali a conti fatti, dovrebbero essere il target su cui puntare per ripopolare gli stadi.
Secondo gli ultimi rapporti, infatti, le presenze negli stadi crollano vorticosamente anno dopo anno e questi labirinti burocratici non hanno fatto altro che complicare ancora di più le cose. Nella stagione 2011/2012, gli spalti in Serie A si sono svuotati mediamente del -7,3%, con un dato, quello della Juventus, che deve far riflettere: +71%.
L’unica società che ha provveduto a realizzare un impianto al passo con i grandi club d’Europa è proprio quelal guidata dalla famiglia Agnelli e i benefici, in termini economici e sportivi, sono sotto gli occhi di tutti: imbattibilità interna da oltre un anno, vittoria dello scudetto e un entusiasmo crescente nella tifoseria. Quello della Juventus è anche l’’unico organico italiano che, ormai riesce a tenere il passo delle locomotive continentali come Bayern Monaco, Real Madrid o Barcellona, dotate di stadi moderni e sempre aperti al pubblico.
Certo, gli investimenti sono stati pesanti e il bilancio juventino, pur dimezzandoli, non ha ancora eliminato i milioni di passivo. Eppure, con il gioiellino di proprietà dello Juventus Stadium, la società è consapevole di possedere un tesoretto anche e soprattutto per gli anni a venire, a differenza degli altri club italiani, che ancora si accapigliano con i Comuni per le gestioni degli impianti.
Ecco, dunque, che una legge sugli stadi non solo deve essere caldeggiata, ma va intesa come un approdo irrinunciabile se si vuole salvare il sistema calcio che, sì, elargisce stipendi esorbitanti, ma che continua a valere, secondo alcune stime, circa mezzo punto del Pil, soprattutto in conseguenza del mercato dei diritti tv.
Purtroppo, non fanno ben sperare la litigiosità dei presidenti e l’inconsistenza istituzionale degli organismi preposti a governare il pallone, prima tra tutti la Lega Calcio, che ha proprio in Massimo Cellino il suo vicepresidente, nonché rappresentante in seno alla Figc. Il solito impasto all’italiana di cariche e interessi sovrapposti, che annienta le speranze anche ai più fervidi ottimisti riguardo un’approvazione rapida della legge sugli stadi. Resta solo una, seppur pallida, alternativa: che le istituzioni, in autonomia, battano un colpo.
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