Blocco della perequazione: profili di illegittimità costituzionale

Premessa

Come è noto, la perequazione è il meccanismo automatico di adeguamento dell’importo delle pensioni al costo della vita.

L’art. 3 della L. n. 297/1982 prevedeva un sistema di adeguamento delle pensioni al costo della vita con un contributo dello 0.50% da applicarsi sugli imponibili retributivi annui. Trattandosi di un contributo previdenziale, il sistema di adeguamento pensionistico di cui alla citata legge sarebbe dovuto rimanere inalterato almeno per i lavoratori dipendenti, essendo i soli a contribuire per tali adeguamenti.

La disciplina della perequazione automatica ha subito però dopo la L. n. 297/1982 notevoli modifiche con la conseguente riduzione, anche sensibile, del valore delle pensioni.

Infatti, prima l’art. 21 della L. n. 730/1983, poi l’art. 34 della L. n. 448/1998, infine l’art. 69 della L. n. 388/2000 hanno determinato una evidente riparametrazione della rivalutazione pensionistica del tutto insufficiente rispetto all’aumento del costo della vita, soprattutto per le pensioni eccedenti 3 e 5 volte il trattamento minimo, cui va aggiunto il drenaggio fiscale degli aumenti per indicizzazione.

Più precisamente il legislatore, al fine di garantire il mantenimento del potere di acquisto delle pensioni in generale, aveva disposto l’adeguamento dei trattamenti pensionistici agli indici reali di svalutazione (v. art. 21 L. n. 730/1983, recante “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 1984“e art. 24 L. n. 41/1986, recante “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 1986“).

Su questa linea, il legislatore per fronteggiare gravi esigenze di contenimento della spesa pubblica ed allo scopo – enunciato nell’art. 1 della L. n. 421/1992 (Delega al Governo per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale) – di stabilizzare il rapporto tra spesa previdenziale e Prodotto Interno Lordo, ha consapevolmente svincolato i trattamenti pensionistici dall’andamento delle successive retribuzioni e cercato di salvaguardarne nel tempo il potere d’acquisto e l’adeguatezza attraverso il solo meccanismo della perequazione automatica dell’importo alle variazioni del costo della vita.

In attuazione di tale delega, il D.L. vo. n. 503/1992 (Norme per il riordinamento del sistema previdenziale dei lavoratori privati e pubblici a norma dell’articolo 3 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), ha disposto – all’art. 11 – che gli aumenti a titolo di perequazione automatica delle pensioni si applicano sulla base del solo adeguamento al costo della vita con cadenza annuale e con effetto dal 1° gennaio di ogni anno, stabilendo che tali aumenti vengano calcolati “applicando all’importo della pensione spettante alla fine di ciascun periodo la percentuale di variazione che si determina rapportando il valore medio dell’indice ISTAT dei prezzi al consumo per famiglie di operai e impiegati, relativo all’anno precedente il mese di decorrenza dell’aumento, all’analogo valore medio relativo all’anno precedente”. La stessa norma, nondimeno, rinviava ad ulteriori aumenti stabiliti con la legge finanziaria, in relazione all’andamento dell’economia nazionale.

Successivamente, la L. n. 449/1997 (Misure di stabilizzazione della finanza pubblica), all’art. 59, comma 4, ha disposto che la perequazione automatica delle pensioni, prevista dal citato articolo 11, costituisca, a decorrere dal 1998, l’unica forma di adeguamento delle prestazioni pensionistiche, “con esclusione di diverse forme, ove ancora previste, di adeguamento anche collegate all’evoluzione delle retribuzioni di personale in servizio”.

Infine, le modalità di applicazione del meccanismo di rivalutazione delle pensioni sono state definite dall’art. 34 della L. n. 448/1998 (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo), mentre l’art. 69 della L. n. 388/2000 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2001) ha fissato la misura entro la quale si applica l’indice di rivalutazione automatica a decorrere dal 1° gennaio 2001 (limitandola al 90%, per le fasce di importo dei trattamenti pensionistici compresi tra tre e cinque volte il trattamento minimo INPS, e al 75% per le fasce di importo superiori a 5 volte il predetto trattamento minimo).

Si è assistito quindi ad un’evoluzione legislativa orientata a salvaguardare nel tempo il potere d’acquisto e l’adeguatezza dei trattamenti pensionistici attraverso l’esclusivo meccanismo della perequazione automatica dell’importo alle variazioni del costo della vita. Ciò premesso, giova ricordare che nella scelta del meccanismo perequativo da utilizzare, il legislatore gode di una certa discrezionalità, atteso che il combinato disposto degli articoli 36 e 38 Cost. impone il raggiungimento del fine (adeguamento delle pensioni all’incremento del costo della vita), senza imporre una particolare modalità attuativa del principio indicato.

Tuttavia, sebbene non esista un principio costituzionale che possa garantire l’adeguamento costante delle pensioni al successivo trattamento economico dell’attività di servizio corrispondente, il legislatore è tenuto ad individuare meccanismi che assicurino la perdurante adeguatezza delle pensioni all’incremento del costo della vita. Infatti, per scongiurare il verificarsi di “un non sopportabile scostamento” fra l’andamento delle pensioni e delle retribuzioni, il legislatore non può eludere il limite della ragionevolezza (così, Corte Costituzionale, sentenza n. 226/1993; v. anche Corte Costituzionale, sentenza n. 316/2010) ed, in ogni caso, deve ispirarsi ai principi costituzionali di cui agli artt. 36, co. I, e 38 co. II, Cost. (così come ribadito dalla menzionata sentenza della Consulta n. 70/2015:”…il rispetto dei parametri citati si fa tanto più pressante per il legislatore, quanto più si allunga la speranza di vita e con essa l’aspettativa, diffusa fra quanti beneficiano di trattamenti pensionistici, a condurre un’esistenza libera e dignitosa, secondo il dettato dell’art. 36 Cost.”).

Pertanto, il criterio di ragionevolezza, così come delineato dalla citata giurisprudenza della Corte in relazione ai principi contenuti negli artt. 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost., circoscrive la discrezionalità del legislatore e vincola le sue scelte all’adozione di soluzioni coerenti con i parametri costituzionali.

Tale principio ha portato più volte la Consulta a dichiarare l’illegittimità di disposizioni che non contenevano alcuna previsione volta ad assicurare nel tempo la conservazione del valore delle prestazioni da loro erogate. Esemplificativamente può essere ricordata la vicenda relativa alla rivalutazione dei contributi versati ai fini dell’assicurazione facoltativa per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti, in relazione alla quale non era previsto alcun criterio di adeguamento del valore della contribuzione versata dall’1 gennaio 1948 in poi all’incremento del costo della vita. In tale ipotesi venne dichiarata l’illegittimità della disposizione in quanto l’omessa previsione di tale meccanismo rendeva priva di effetto la norma stessa (cfr. Corte Costituzionale, sentenza 21.03.1989, n. 141).

 

2. Ricostruzione della pensione sulla base della normativa previgente all’art. 24, comma 25, del D.L. n. 201/2011

Malgrado le raccomandazioni della Corte Costituzionale, il legislatore con l’articolo 24, comma 25, D.L. n. 201/2011 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito con modificazioni dall’art. 1, co. 1, della L. 214/2011, ha limitato, per il biennio 2012/2013, la perequazione del trattamento pensionistico solamente in favore delle prestazioni di importo complessivo fino a tre volte il trattamento minimo INPS e, cioè, fino all’importo di € 1.216,00, netti. Tale disposizione è stata sottoposta al vaglio dinanzi alla Corte Costituzionale, la quale con la sentenza n. 70 del 30 aprile 2015, pubblicata sulla G.U. del 06.05.2015, n. 18, ne ha sancito l’incostituzionalità, ritenendo violati i parametri della ragionevolezza, proporzionalità ed adeguatezza del trattamento pensionistico, di guisa che a tutti i pensionati, investiti dal provvedimento, doveva essere accordata la rivalutazione della pensione per gli anni 2012 e 2013, e tale rivalutazione doveva essere posta a base del ricalcolo della pensione per gli anni successivi (2014, 2015 e 2016).

Occorre sin d’ora precisare che la dichiarazione di incostituzionalità, con la sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, è immediatamente esecutiva e non necessita di decreti di attuazione, assumendo pertanto forza di legge e validità erga omnes, non potendo affatto essere elusa da disposizioni governative (emanate subito dopo la pubblicazione) che si pongono con essa in aperto contrasto.

Sul punto l’art. 136 della Costituzione, al comma 1, è perentorio: “Quando la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge, la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione” .

In tal caso, infatti, la rivalutazione prevista dall’art. 34, comma 1, della L. n. 448/1998 ha ripreso a produrre effetti dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza, con la conseguenza che l’Ente Previdenziale, come sarebbe stato suo dovere istituzionale, avrebbe dovuto ricalcolare le pensioni secondo il dettato della Corte Costituzionale.

Pertanto, i trattamenti pensionistici colpiti dall’azzeramento della indicizzazione, sulla base della norma dichiarata incostituzionale, dovrebbero ritenersi già acquisiti nella sfera giuridica dei pensionati in ragione della natura auto applicativa della citata sentenza n. 70/2015. Infatti, è scaturito un obbligo da parte dello Stato di far recuperare ai pensionati interessati ciò che era stato illegittimamente sottratto in forza di una norma illegittima.

In altre parole, si tratta di diritti quesiti dei pensionati ad ottenere la perequazione della propria pensione in misura integralmente corrispondente a quanto previsto dall’art. 69 L. n. 388/2000.

A ciò si aggiunga che, per assicurare stabilità alla tenuta del sistema, la decisione della Corte Costituzionale esclude qualsiasi eventualità che interventi per decreto possano prevedere con effetto retroattivo l’assenza di rivalutazione o l’inadeguatezza della stessa.

Di conseguenza, l’obbligo di restituzione doveva essere incondizionato e totale perché la sentenza della Corte Costituzionale è stata completamente caducatoria cioè ha spazzato via dall’ordinamento giuridico la norma senza se e senza ma.

Il D.L. n. 65/2015 (disposizione – come meglio si vedrà infra – in contrasto con le norme costituzionali) ha efficacia immediata dalla data della sua pubblicazione, ma non può assume carattere retroattivo (anche se tenta di risolvere rapporti pregressi) poiché trattasi di disposizione finanziaria, rimanendo pertanto immutato il diritto al riconoscimento della rivalutazione del trattamento pensionistico dal 2012 ad oggi.

Purtroppo, i pensionati interessati alla perequazione hanno dovuto constatare come, a partire dall’anno 2012 e fino a tutt’oggi, l’ammontare del loro reddito pensionistico non sia stato adeguato ad alcun indice di svalutazione.

Pertanto, il trattamento di cui oggi usufruiscono i pensionati si è rivelato e tuttora si rivela assolutamente inadeguato, tanto più a causa dell’elevata imposizione fiscale presente nel nostro paese.

 

3. Incostituzionalità del comma 25 dell’art. 24 del D.L. n. 201/2011, convertito con modificazioni in L. n. 214/2011, così come modificato dal D.L. n. 65/2015, convertito in L. n. 109/2015

Nei momenti di transazione, sia che interessino la vita individuale sia che riguardino le istituzioni o la società nel suo complesso, non vi sono punti di riferimento consolidati o principi sorretti dal consenso diffuso che ne fondi le basi. Il momento storico attuale ne è un esempio: con la rapidità che caratterizza i cambiamenti di oggi, si bruciano come obsoleti strumenti concettuali ed operativi accreditati da molto tempo; si confezionano archetipi o prototipi senza adeguati collaudi all’insegna di slogan forse accettabili se non riguardassero diritti inviolabili: “proviamo e poi vedremo” è un motivo ispiratore di molti innesti legislativi degli ultimi anni.

Questo in breve sintesi il background che sta alla base del D.L. n. 65/2015.

Certamente suggestivo sebbene infondato il tentativo del Governo di giustificare il D.L. n. 65/2015, in forza del fatto che le disposizioni de quibus non sarebbero riproduttive di quelle precedenti, ma importerebbero una innovazione delle stesse proprio per adeguarle ai dictum della pronuncia della Consulta.

Sulla base di un ragionevole bilanciamento dei valori costituzionali, spetta al Legislatore individuare idonei meccanismi che assicurino la perdurante adeguatezza delle pensioni all’incremento del costo della vita.

Così è avvenuto anche per la previdenza complementare, che, pur non incidendo in maniera diretta e immediata sulla spesa pubblica, non risulta del tutto indifferente per quest’ultima, poiché contribuisce alla tenuta complessiva del sistema delle assicurazioni sociali (cfr. Corte Costituzionale, sentenza n. 393/2000) e, dunque, all’adeguatezza della prestazione previdenziale.

In realtà, tutti i provvedimenti diretti alla riduzione od alla sospensione dei trattamenti economici spettanti ai soggetti titolari di trattamento di pensione sono giustificati da ragioni di finanza pubblica e di contenimento della spesa, le quali, oggi, confluiscono anche nel principio del pareggio di bilancio, elevato a rango costituzionale e contenuto nell’art. 81 Costituzione.

L’esistenza dei predetti interventi, e dei presupposti sui quali i medesimi sono fondati, è nota da tempo ed ha già visto cimentarsi la Corte Costituzionale nel lontano 1990, che ebbe modo di sottolineare la discrezionalità del legislatore negli interventi per il miglioramento e la perequazione dei trattamenti pensionistici, “i quali si realizzano con la gradualità imposta da scelte di politica sociale ed economica, in considerazione anche delle esigenze di bilancio e delle finalità di risanamento e ripianamento delle gestioni previdenziali” (sul punto, v. Corte Costituzionale, ordinanza 21.07.1990, n. 401).

A simile principio, però, pare essersi data un’applicazione distorta, dal momento che oramai è sempre più frequente che un provvedimento legislativo, all’apparenza transitorio e giustificato da ragioni di finanza pubblica, dichiarato di natura eccezionale o straordinaria, finisca per divenire strutturale, in quanto reiterato nel corso del tempo con i successivi interventi normativi. Difatti, se è vero che la garanzia costituzionale della adeguatezza e della proporzionalità del trattamento pensionistico incontra il limite delle risorse disponibili al quale il Governo ed il Parlamento devono uniformare la legislazione di spesa, è altrettanto vero che la sospensione a tempo indeterminato del meccanismo perequativo, ovvero la frequente reiterazione di misure intese a paralizzarlo, esporrebbero il sistema ad evidenti tensioni con gli invalicabili principi di ragionevolezza e proporzionalità, perché “…le pensioni, sia pure di maggiore consistenza, potrebbero non essere sufficientemente difese in relazione ai mutamenti del potere d’acquisto della moneta(cfr. Corte Costituzionale, sentenza 17.11.2010, n. 316).

Pur dovendo riconoscere al legislatore il potere di apportare modifiche alla legge dichiarata incostituzionale, si esige però che tali disposizioni non trasmodino in un provvedimento irrazionale, frustrando l’affidamento dei cittadini nella sicurezza giuridica, da intendersi quale elemento fondamentale dello Stato di diritto.

In altri termini, se da un lato l’eccezionalità della situazione economica che lo Stato deve affrontare è suscettibile di consentire il ricorso a strumenti eccezionali, nel difficile compito di contemperare il soddisfacimento degli interessi finanziari e di garantire i servizi e la protezione di cui tutti cittadini necessitano, dall’altro ciò non può e non deve determinare ancora una volta un’obliterazione dei fondamentali canoni di uguaglianza, sui quali si fonda l’ordinamento costituzionale (in particolare, v. Corte Costituzionale, sentenza 17.10.2012, n. 223).

Poiché l’istituto della perequazione automatica mira non già ad arricchire ovvero premiare i fruitori di una pensione d’anzianità, bensì ad adeguare la pensione percepita al costo della vita, è indubbio che il mancato adeguamento del trattamento pensionistico si traduce in un’immediata perdita del potere d’acquisto, causata dalla esposizione al rischio inflattivo degli assegni erogati.

Anche se la Corte, in una precedente pronuncia, ha avallato il blocco perequativo riferito alle pensioni di maggiore entità (superiori di otto volte al minimale INPS), introdotto dalla L. 24 dicembre 2007, n. 247, al contempo ha stigmatizzato la frequente reiterazione di misure intese a paralizzarlo (v. Corte Costituzionale, sentenza 17.11.2010, n. 316). Ed infatti, la Corte, pur avendo riconosciuto la legittimità di temporanee sospensioni della perequazione, anche se limitate alle pensioni di importo più elevato, ha precisato che la ragionevolezza complessiva del sistema dovrà essere apprezzata nel quadro del contemperamento di interessi di rango costituzionale, alla luce dell’art. 3 Cost..

Con ciò si intende sostanzialmente evitare che una generalizzata esigenza di contenimento della finanza pubblica possa risultare sempre e comunque valido motivo per determinare la compromissione di diritti maturati e/o la lesione di consolidate sfere di interessi, sia individuali, sia anche collettivi (v. Corte Costituzionale, sentenza n. 92/2013).

A questo proposito, occorre, infatti, ricordare che una sospensione a tempo indeterminato della perequazione o la reiterazione frequente di misure dirette a paralizzarla esporrebbero il sistema pensionistico a tensioni evidenti con i principi di proporzionalità ed adeguatezza, poiché risulterebbe incrinata la principale finalità di tutela, insita nel meccanismo della perequazione, quella che prevede una difesa modulare del potere d’acquisto delle pensioni.

Il legislatore del 2011, secondo la Corte, non aveva esercitato il corretto bilanciamento tra ragioni di spesa e tutela del potere di acquisto del trattamento pensionistico, avendo utilizzato un generico richiamo alla “contingente situazione finanziaria”, senza rispettare il vincolo di scopo ineludibile del sacrificio economico imposto ai pensionati (così, Corte Costituzionale, sentenza n. 70/2015).

Allo stesso modo, l’introduzione del nuovo testo dell’art. 24 D.L. n. 201/2011, così come sostituito con il D.L. n. 65/2015, è stato giustificato dal “rispetto del principio di equilibrio di bilancio e degli obiettivi di finanza pubblica” e dalla “salvaguardia della solidarietà intergenerazionale”, cioè da enunciazioni generiche e relative a finalità già insite di per sé (ai sensi, rispettivamente, degli artt. 81 e 38 Cost.) in ogni iniziativa legislativa adottata nella materia pensionistica.

Nella relazione illustrativa al disegno di legge le ragioni vengono espresse ponendo come unico riferimento ai maggiori oneri finanziari che lo stato sopporterebbe in via decrescente tra il 2012 ed il 2016 per effetto della riattivazione del meccanismo perequativo dell’art. 69 L. n. 388/2000 conseguente alla sentenza n. 70/2015 della Corte Costituzionale, mentre manca qualsiasi accenno alla ragione per cui si intende comunque riequilibrare il disavanzo con l’intervento sul sistema pensionistico e sul perché esso venga modulato con le specificità di cui sopra si è detto.

La scelta del legislatore rappresenta, dunque, una intollerabile mancanza di rispetto per le regole basilari di metodo e per i principi che devono caratterizzare la funzione legislativa, quando essa incide su fondamentali diritti costituzionali.

La Corte Costituzionale si è mossa in tale direzione già in epoca risalente, con il ritenere di dubbia legittimità costituzionale un intervento che incida «in misura notevole e in maniera definitiva» sulla garanzia di adeguatezza della prestazione, senza essere sorretto da una imperativa motivazione di interesse generale (in termini, Corte Costituzionale, sentenza 17.12.1985, n. 349).

A ben vedere, il testo dell’art. 24 comma 25 così come sostituito ha effetti distribuiti su più anni e destinati a diventare permanenti, non essendo previsto il recupero futuro del mancato incremento rivalutativo della base di calcolo dei trattamenti pensionistici.

Con un’unica disposizione si è dunque realizzata di fatto una reiterazione annuale della paralisi del meccanismo perequativo, in contrasto con il monito più volte ripetuto dalla Corte Costituzionale. Inoltre, vengono incise pensioni anche di valore economico modesto.

Il D.L. n. 65/2015 ha quindi introdotto uno strumento che eccede nell’opera di riequilibrio finanziario rispetto al fine dichiarato, senza garantire appieno la conservazione nel tempo del potere di acquisto delle pensioni incise e sacrificando perciò in misura sproporzionata la tutela dei beneficiari di trattamenti previdenziali non elevati.

Tali essendo gli aspetti innovatori della disciplina introdotta dal D.L. n. 65/2015, si rende necessario valutarne la conformità alla Costituzione e, ove l’esame da parte del Giudice delle leggi risulti negativo, i Tribunali investiti della questione dovranno trarne le dovute conseguenze.

a) Violazione dell’art. 136 della Costituzione

In primo luogo, la denuncia di incostituzionalità dell’art. 1 del D.L. n. 65/2015, convertito in L. n. 109 del 2015, va sviluppata con riguardo all’art. 136 della Costituzione.

Quanto sin qui evidenziato dimostra incontrovertibilmente come il D.L. n. 65/2015, pur trovandosi di fronte ad un vero e proprio giudicato costituzionale, abbia riproposto per i pensionati la norma già invalidata dalla Corte, dichiarandola sostituita, e per di più con una inammissibile efficacia ex tunc.

Si tratta di un caso di scuola di violazione del giudicato costituzionale e dell’art. 136 Cost..

L’efficacia precettiva del giudicato costituzionale è stato sminuito e degradato nei meri “principi enunciati nella sentenza della Corte costituzionale n. 70 del 2015”, come se la Corte si fosse limitata a dare un “consiglio” al Governo, anziché emanare un precetto con una sentenza la cui efficacia è costituzionalmente predeterminata dall’art. 136 Cost..

Il D.L. n. 65/2015, nel sostituire il testo del D.L. n. 201/2011 convertito in L. n. 214/2011, dichiarato incostituzionale con sentenza n. 70/2015 della Consulta, ha sostanzialmente aggirato le statuizioni di detta declaratoria, impedendo la portata retroattiva insita nella dichiarazione di incostituzionalità.

Lo Stato, infatti, oltre a pagare solo in parte ad alcuni ed ad altri nulla, con ciò dando esecuzione solo parziale in alcuni casi e nessuna esecuzione in altri alla sentenza della Corte, è intervenuto sulle stesse annualità il cui blocco era stato considerato illegittimo.

La normativa in esame, che sembra riportare le condizioni dei pensionati a livelli inaccettabili, viene per fortuna contradetta dalla stessa Corte Costituzionale che in più occasioni ha ritenuto in violazione dell’art. 136 Costituzione gli interventi legislativi che, dopo pronunce declaratorie di incostituzionalità, abbiano avuto il sostanziale effetto di “prolungare la vita” della norma dichiarata incostituzionale, in tal modo ripristinando l’efficacia delle disposizioni ormai caducate e dunque gli effetti che erano stati rimossi per effetto della declaratoria di incostituzionalità (tra le tante, Corte Costituzionale, sentenze n. 73/2013 e n. 223/1983).

Il principio del giudicato costituzionale è stato ribadito ancora una volta recentemente dalla Corte (cfr. Corte Costituzionale, sentenza 24.06.2015, n. 169) ove ha sottolineato come, in forza dell’art. 136 Cost., una sua sentenza “non possa risultare pronunciata “inutilmente”, come accadrebbe quando una accertata violazione della Costituzione potesse, in una qualsiasi forma, inopinatamente riproporsi. E se, perciò, certamente il legislatore resta titolare del potere di disciplinare, con un nuovo atto, la stessa materia, è senz’altro da escludere che possa legittimamente farlo – come avvenuto nella specie – limitandosi a “salvare”, e cioè a “mantenere in vita”, o a ripristinare gli effetti prodotti da disposizioni che, in ragione della dichiarazione di illegittimità costituzionale, non sono più in grado di produrne. Il contrasto con l’art. 136 Cost. ha, in un simile frangente, portata addirittura letterale”. La Corte Costituzionale nella stessa sentenza ricorda che questo orientamento è stato inaugurato nel lontano 1963, e da allora ha avuto continuità in numerose altre sentenze.

Va rammentato come, si da epoca ormai risalente, la giurisprudenza costituzionale non abbia mancato di evidenziare il rigoroso significato della norma contenuta nell’art. 136 Costituzione: su di essa- si è detto – “(…) poggia il contenuto pratico di tutto il sistema delle garanzie costituzionali, in quanto essa toglie immediatamente ogni efficacia alla norma illegittima senza possibilità di compromissioni od incrinature nella sua rigida applicazione” (cfr. sentenza n. 73/1963, che dichiarò la illegittimità di una legge, successiva alla pronuncia di illegittimità costituzionale, con la quale il legislatore aveva dimostrato “alla evidenza” la volontà di “non accettare la immediata cessazione dell’efficacia giuridica della norma illegittima, ma di prolungarne la vita sino all’entrata in vigore della nuova legge”). In buona sostanza, la Consulta ha osservato che l’art. 136 Cost. sarebbe violato non soltanto laddove espressamente si disponesse che una norma dichiarata illegittima conservi la sua efficacia, ma anche nel caso in cui una legge, per il modo con cui provvede a regolare le fattispecie verificatesi prima della sua entrata in vigore, perseguisse e raggiungesse, anche se indirettamente, lo stesso risultato (così, Corte Costituzionale, sentenze nn. 245/2012; 345/2010; 922/1988; 88/1966; 73/1963).

Ma vi è di più. La Corte Costituzionale, nella recente sentenza 173/2016, ha ribadito sul punto alcune fondamentali precisazioni. Si trattava della fattispecie – anch’ essa pensionistica – del contributo di solidarietà, dichiarato incostituzionale con sentenza n. 116 del 5 giugno 2013.

Poco dopo la sentenza il legislatore introdusse una nuova forma di contributo di solidarietà, ma solo per il futuro (gli anni 2014/2016), con l’art. 1, comma 486 della L. 27 dicembre 2013, n. 147. Il Legislatore, quindi, si guardò bene dal negare gli arretrati riconosciuti dalla Corte Costituzionale, ma si è limitato ad intervenire sul futuro (2014/2016) e per di più eliminando il vizio rilevato dalla Corte (ovvero la natura sostanzialmente tributaria del prelievo).

La Corte Costituzionale, investita nuovamente della questione di costituzionalità sulla seconda legge, pur respingendo la eccezione di giudicato costituzionale, ne ha dato una chiara motivazione che se applicata al caso posto alla nostra attenzione porta a ritenere inevitabilmente violato l’art. 138 Cost.. Scrive la Corte al n. 8 del “Considerato in diritto” della sentenza: “deve, in primo luogo, escludersi che sussista la denunciata violazione dell’art. 136 Cost. Il “contributo di solidarietà” ora in contestazione non colpisce, infatti, le pensioni erogate negli anni (2011-2012), incise dal precedente contributo perequativo, dichiarato costituzionalmente illegittimo in ragione della sua accertata natura tributaria e definitivamente, quindi, caducato (e conseguentemente recuperato da quei pensionati) per effetto della sentenza di questa Corte n. 116 del 2013; colpisce, invece, sulla base di differenti presupposti e finalità, pensioni, di elevato importo, nel successivo periodo, a partire dal 2014. E tanto esclude che la disposizione sub comma 486 dell’art. 1 della legge n. 147 del 2013 sia elusiva del giudicato costituzionale (rappresentato dalla suddetta sentenza), atteso appunto, che l’odierna disposizione non disciplina le stesse fattispecie già regolate dal precedente art. 18, comma 22-bis, del d.l. n. 98 del 2011, né surrettiziamente proroga gli effetti di quella norma dopo la sua rimozione dall’ordinamento giuridico (vedi sentenza n. 245 del 2012).” (cfr. Corte Costituzionale, sentenza 13.07.2016, n. 173).

Invece il Decreto Legge 65/15 pretende di imporre proprio quello che è inammissibile: bloccare gli effetti della sentenza della Corte Costituzionale, sia per gli arretrati e sia per gli aumenti mensili, consolidando ed anzi rendendo definitivo anche per il futuro lo stesso vulnus già censurato dalla Corte nella sentenza 70/15.

Questo profilo di incostituzionalità è stato lucidamente messo in evidenza dal Tribunale Genova, nella sua ordinanza del 9 agosto 2016, che ha ritenuto non manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate ed ha richiesto il vaglio sotto vari profili del D.lgs. n. 65/2015 e della legge di conversione n. 109/2015 (v. Tribunale di Genova, sez. lav., ordinanza 09.08.2016; Reg. ord. n. 243 del 2016 pubbl. su G.U. del 30/11/2016 n. 48; conformi: Tribunale di Palermo, sez. lav., ordinanza 22.01.2016; Tribunale di Brescia, sez. lav., ordinanza 08.02.2016; Corte dei Conti Emilia Romagna, ordinanza 23.02.2016; Corte dei Conti Marche, ordinanza 26.04.2016; Tribunale di Milano, sez. lav., ordinanza 30.04.2016).

L’elusione del giudicato costituzionale è massimamente evidente per i pensionati titolari di un trattamento pensionistico che supera sei volte il trattamento minimo: per costoro, l’esclusione di qualsivoglia meccanismo di perequazione della pensione per gli anni 2012-2013, che operava prima della sentenza n. 70/2015 della Corte Costituzionale, è rimasta anche dopo l’introduzione del D.L. n. 65/2015 e a causa di detto provvedimento normativo.

Dalla lettura sinottica dell’equilibrio dei poteri di cui alla Carta Costituzionale si evince come in alcun modo le decisioni di illegittimità costituzionale della Consulta possano arrivare a depauperare il legislatore dei compiti suoi propri ma in maniera del tutto parimenti evidente risulta positivamente affermato che tali decisioni non possano essere ignorate dal legislatore a meno di non volere intendere lo Stato democratico nei termini imperiali del princeps legibus solutus con ciò chiaramente eludendo i postulati stessi del nostro ordinamento che ha individuato, nella previsione di una costituzione rigida, lo strumento per regolamentare il possibile conflitto tra lex (di matrice politica/contingente) e jus (quale diritto nella accezione di permanenza e pervasività dei valori fondanti il contratto sociale).

 

b) Violazione degli artt. 3, 36 e 38 della Costituzione

In secondo luogo, la denuncia di incostituzionalità della norma in questione va esaminata con riferimento agli artt. 36, 38 e 3 della Costituzione.

Va premesso che le pensioni erogate dall’INPS sono annualmente rivalutate (“perequate”) per mantenere il loro potere d’acquisto, e ciò è costituzionalmente necessario per mantenere le caratteristiche di adeguatezza e di proporzionalità del trattamento pensionistico, ai sensi degli artt. 36 e 38 Costituzione.

Come infatti puntualmente osservato dalla Corte Costituzionale nella citata sentenza n. 70/2015: “la perequazione automatica dei trattamenti pensionistici è uno strumento di natura tecnica, volto a garantire nel tempo il rispetto del criterio di adeguatezza di cui all’art. 38, secondo comma, Cost. Tale strumento si presta contestualmente a innervare il principio di sufficienza della retribuzione di cui all’art. 36 Cost., principio applicato, per costante giurisprudenza di questa Corte, ai trattamenti di quiescenza, intesi quale retribuzione differita (fra le altre, sentenza n. 208 del 2014 e sentenza n. 116 del 2013)”.

Come ancora ha rilevato la stessa Corte nella sua sentenza 70/15, gli aumenti della perequazione bloccati non vengono mai più recuperati. I blocchi della perequazione, infatti, sono solo all’apparenza temporanei, ma in realtà producono effetti permanenti, poiché l’importo che è stato sottratto dalla pensione mensile non verrà mai più recuperato negli anni successivi, e rimane come un vulnus perpetuo nel trattamento pensionistico, finendo addirittura per danneggiare anche la pensione di reversibilità del coniuge.

Gli effetti permanenti dei blocchi della perequazione, soprattutto se reiterati, non possono essere costituzionalmente accettati, poiché creano un vulnus perpetuo ed irrimediabile all’adeguatezza della pensione di cui all’art. 38 Costituzione, alla luce anche dell’art. 36 Costituzione.

Il comma 25 dell’art. 24 del D.L. n. 201/2011, convertito con modificazioni in L. n. 214/2011, così come modificato dal D.L. n. 65/2015, convertito nella L. n. 109/2015, travalica i limiti di ragionevolezza, adeguatezza e proporzionalità fissati da un consolidato orientamento giurisprudenziale e soprattutto non supera, per diversi e significativi rilievi riferiti alla retroattività ed al meccanismo perequativo applicato, le censure rilevate dalla Corte Costituzionale con la più volte citata sentenza n. 70/2015.

Con il D.L. n. 65/2015, convertito in L. n. 109/2015, il Governo prima e il Legislatore poi con la successiva conversione in legge, hanno ritenuto di dover dare attuazione alla sentenza n. 70/2015 della Corte Costituzionale, disponendo solo parziali rimborsi della rivalutazione (limitati ad alcune fasce di pensionati, ovvero da 3 a 6 volte il minimo della pensione sociale) e ribadendo il blocco per le pensioni superiori a sei volte il trattamento minimo dell’INPS senza previsione alcuna di un meccanismo di recupero per il futuro.

Ora, non può ritenersi rispondente ai richiamati principi costituzionali una norma che, come quella censurata, mentre fa consistere nella corresponsione di una somma di danaro (indennità) quell’apprestamento di mezzi adeguati alle esigenze di vita che è il contenuto della protezione costituzionale, non stabilisca, di fronte al fenomeno in atto della notevole diminuzione del potere di acquisto della moneta, un meccanismo diretto ad assicurare anche in prospettiva temporale l’adeguatezza nei sensi suindicati dell’indennità (cfr. Corte Costituzionale, sentenza 27.04.1988, n. 497).

Di conseguenza, si rileva:

_ la violazione dell’art. 38, comma 2, della Costituzione, poiché il blocco totale della rivalutazione impedisce la conservazione nel tempo del valore della pensione del ricorrente, menomandone l’adeguatezza;

_ la violazione dell’art. 36, comma 1, della Costituzione, in quanto il blocco totale della rivalutazione lede senza ombra di dubbio il principio di proporzionalità tra la pensione, che costituisce il prolungamento della retribuzione in costanza di lavoro, e il trattamento retributivo percepito durante l’attività lavorativa.

Ed invero, la sospensione a tempo indeterminato del meccanismo perequativo, ovvero la frequente reiterazione di misure intese a paralizzarlo, «esporrebbero il sistema ad evidenti tensioni con gli invalicabili principi di ragionevolezza e proporzionalità», poiché risulterebbe incrinata la principale finalità di tutela, insita nel meccanismo della perequazione, quella che prevede una difesa modulare del potere d’acquisto delle pensioni.

La Corte Costituzionale si è mossa in tale direzione già in epoca risalente, con il ritenere di dubbia legittimità costituzionale un intervento che incida «in misura notevole e in maniera definitiva» sulla garanzia di adeguatezza della prestazione, senza essere sorretto da una imperativa motivazione di interesse generale (in termini, Corte Costituzionale, sentenza 17.12.1985, n. 349).

A tal riguardo deve rammentarsi che, per le modalità con cui opera il meccanismo della perequazione, ogni eventuale perdita del potere di acquisto del trattamento, anche se limitata a periodi brevi, è, per sua natura, definitiva. Le successive rivalutazioni saranno, infatti, calcolate non sul valore reale originario, bensì sull’ultimo importo nominale, che dal mancato adeguamento è già stato intaccato.

Le censure di incostituzionalità traggono origine dall’art. 1 del D.L. n. 65/2015 che, appunto, evidenzia, al di là di ogni ragionevole dubbio, la incompatibilità della normativa attuale con le norme costituzionali in materia, avuto riguardo ad alcune disposizioni introdotte ad integrazione e/o modifica delle precedenti.

Subito dopo la sentenza della Corte Costituzionale che ha sancito l’illegittimità costituzionale dell’art. 24, comma 25, del D.L. n. 201/2011, il Governo ha cercato di sanare la problematica con l’emanazione del D.L. n. 65/2015, il quale prevede il riconoscimento di un rimborso forfettario erogabile dal 01.08.2015, solo per quei trattamenti pensionistici rientranti nello scaglione di valore da € 1.500,00 (lordi) circa ad € 3.000,00 (lordi) circa.

In particolare, l’art. 1, co. 1, del D.L. n. 65/2015, convertito in L. n. 109/2015, è intervenuto sul sistema ritenuto illegittimo, prevedendo una parziale maturazione della perequazione, nei seguenti termini: a) nella misura del 100 % per i trattamenti pensionistici di importo complessivo fino a tre volte il trattamento minimo INPS; b) nella misura del 40% per i trattamenti pensionistici complessivamente superiori a tre volte il trattamento minimo INPS e pari o inferiori a quattro volte il trattamento minimo INPS; c) nella misura del 20% per i trattamenti pensionistici complessivamente superiori a quattro volte il trattamento minimo INPS e pari o inferiori a cinque volte il trattamento minimo INPS; d) nella misura del 10% per i trattamenti pensionistici complessivamente superiori a cinque volte il trattamento minimo INPS e pari o inferiori a sei volte il trattamento minimo INPS.

Peraltro, durante la pendenza del giudizio di costituzionalità, è stata emanata la legge di stabilità per l’anno 2014 (legge 27 dicembre 2013, n. 147, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato-legge di stabilità»), la quale, all’art. 1, comma 483, lettera e), ha previsto, per il triennio 2014-2016, una rimodulazione nell’applicazione della percentuale di perequazione automatica sul complesso dei trattamenti pensionistici.

Nel triennio in oggetto, la perequazione si applica nella misura: a) del 100 per cento per i trattamenti pensionistici di importo fino a tre volte il trattamento minimo; b) del 95 per cento per i trattamenti di importo superiore a tre volte il trattamento minimo e pari o inferiori a quattro volte il trattamento minimo; c) del 75 per cento per i trattamenti oltre quattro volte e pari o inferiori a cinque volte il trattamento minimo; d) del 50 per cento per i trattamenti oltre cinque volte e pari o inferiori a sei volte il trattamento minimo INPS.

Nessuna rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici, sulla scorta del meccanismo stabilito dall’art. 34, co 1, della L. n. 448/1998, è riconosciuta per i trattamenti pensionistici superiori ad € 3.000,00 (lordi) circa.

Il D.L. n. 65/2015, convertito in L. n. 109/2015, in realtà, riduce gli arretrati al 10% o 20% o 40% delle somme dovute provocando un danno elevatissimo (si stima dai 1.000 ai 2.500 euro di arretrati per circa 5,5 milioni di pensionati), ma soprattutto cancella l’adeguamento delle pensioni correnti e future, sostituendole con cifre a dir poco irrisorie.

Inoltre il Legislatore, con la predetta L. n. 109/2015, ha ridotto la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici di importo complessivamente superiore a 3 volte il trattamento minimo INPS, nella misura del 20% per gli anni 2014 e 2015 (pari all’8%, 4% e 2% di quanto riconosciuto per gli anni 2012 e 2013) e nella misura del 50% a decorrere dal 2016 (pari al 20%, 10% e 5% di quanto riconosciuto per gli anni 2012 e 2013).

Anche a voler accennare, nei limiti consentiti in questa sede, alle peculiarità del D.L. n. 65/2015, sul piano sistematico si può agevolmente constatare come l’intervento legislativo in esame sia del tutto lesivo dei diritti dei pensionati, oltre che manifestamente illegittimo, per evidente violazione dei principi di ragionevolezza e proporzionalità. Tale intervento legislativo si pone in palese contrasto proprio con quanto stabilito dalla stessa Corte Costituzionale nella citata sentenza n. 70/2015, sia per gli innegabili contrasti con norme di rango costituzionale, sia perché detta disposizione non prende affatto in considerazione i trattamenti pensionistici complessivamente superiori a sei volte il trattamento minimo Inps, ovvero non prevede per questi ultimi la perequazione.

Non a caso, fin dalla sentenza n. 26 del 1980, la Corte Costituzionale ha proposto una lettura sistematica degli artt. 36 e 38 Cost., con la finalità di offrire «una particolare protezione per il lavoratore». Essa ha affermato che proporzionalità e adeguatezza non devono sussistere soltanto al momento del collocamento a riposo, «ma vanno costantemente assicurate anche nel prosieguo, in relazione ai mutamenti del potere d’acquisto della moneta», senza che ciò comporti un’automatica ed integrale coincidenza tra il livello delle pensioni e l’ultima retribuzione, poiché è riservata al legislatore una sfera di discrezionalità per l’attuazione, anche graduale, dei termini suddetti (ex plurimis, Corte Costituzionale, sentenze n. 316/10; n. 106/96; n. 173/86; n. 26/80; n. 46/79; n. 176/75; Corte Costituzionale, ordinanza n. 383/04). Nondimeno, dal canone dell’art. 36 Cost. «consegue l’esigenza di una costante adeguazione del trattamento di quiescenza alle retribuzioni del servizio attivo» (v. Corte Costituzionale, sentenza 11.05.1988, n. 501; negli stessi termini, cfr. Corte Costituzionale, sentenza 28.01.2004, n. 30).

Del resto, una diversa interpretazione non appare possibile poiché volendo solo per un attimo seguire la strada tracciata dal Legislatore si porrebbe senza alcun dubbio la questione di illegittimità incostituzionale, per contrasto con gli artt. 3, 36 comma 1, 38 comma 2, nonché con il combinato disposto degli artt. 3, 36 e 38 Cost., dell’art. 1 comma 483 della L. n. 147/2003. In tal caso, il blocco reiterato della perequazione automatica dei pensionati travalica indiscutibilmente ogni canone di ragionevolezza e proporzionalità.

Ebbene, la norma da ultimo introdotta ha nuovamente escluso la perequazione per gli anni 2012 e 2013 per i trattamenti pensionistici di importo complessivo superiore sino a sei volte il trattamento minimo Inps con riferimento all’importo complessivo dei trattamenti medesimi (v. lettera c) del comma 25 del D.L. n. 201/2011, come novellato dall’art. 1 del D.L. n. 65/2015 convertito con L. n. 109/2015. In tal modo è stato reiterato il blocco della perequazione dei trattamenti pensionistici per un biennio innalzandone la soglia e quindi in concreto contravvenendo proprio alle indicazioni fornite dalla Corte Costituzionale e ciò in quanto la somma corrispondente a sei volte il trattamento minimo Inps, cioè € 2.972,58 non appare <<trattamento di sicura rilevanza>> come, invece, è stato riconosciuto essere il trattamento di importo <<otto volte superiore al trattamento minimo INPS>> dalla Corte Costituzionale (sentenza n. 316/2010) quando peraltro l’esclusione dalla perequazione di tali trattamenti era stato previsto con riferimento ad un solo anno (2008).

Quindi, le pensioni di importo superiore a sei volte il trattamento minimo complessivo Inps sono integralmente escluse dalla perequazione per il biennio 2012 e 2013 ed, inoltre, sui trattamenti nuovamente non perequati si innesta la disciplina della L. n. 147/2013 per il triennio successivo 2014-2016 che aveva previsto il blocco di perequazione per l’anno 2014 sulla parte di pensione superiore a sei volte l’importo del trattamento minimo complessivo INPS e lasciando la perequazione del 40% sull’importo inferiore (ma non sul trattamento complessivo bensì solo fino a sei volte l’importo del trattamento minimo, nulla essendo previsto per l’eccedenza) e ciò senza che il legislatore abbia ben specificato le esigenze finanziarie a fronte delle quali si impone tale sacrificio ai soggetti incisi né la destinazione dei risparmi così ottenuti.

In sostanza, lo sganciamento dai meccanismi di adeguamento automatico dei trattamenti pensionistici superiore a tre volte il minimo INPS mina il sistema di adeguamento costituzionalmente rilevante. Per quanto sopra esposto, in relazione alla novella introdotta dalla legge del 2015 ed in relazione alla legge n. 147/2013 con riferimento al blocco afferente l’anno 2014, risultano violati:

_ il principio di cui all’art. 38 comma 2 Costituzione, perché la mancata rivalutazione impedisce la conservazione nel tempo del valore della pensione, menomandone l’adeguatezza;

_ il principio di cui all’art. 36 comma 1 Costituzione, poiché la mancata rivalutazione viola il principio di proporzionalità tra pensione (che costituisce il prolungamento in pensione della retribuzione goduta in costanza di lavoro) e retribuzione goduta durante l’attività lavorativa;

_ il principio derivante dal combinato disposto degli artt. 36, 38, 3 Cost., perché la mancata rivalutazione, violando il principio di proporzionalità tra pensione e retribuzione e quello di adeguatezza della prestazione previdenziale, altera il principio di eguaglianza e ragionevolezza, causando una irrazionale discriminazione in danno della categoria dei pensionati a cui non viene garantito il rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale.

È indubitabile, infatti, come la limitazione del sistema perequativo delle pensioni, oltre ad impedire la conservazione nel tempo del valore del trattamento di quiescenza, va ad incidere direttamente sulla proporzionalità tra pensione e retribuzione goduta nel corso dell’attività lavorativa, tutelata dagli artt. 38 e 36 Costituzione con empirica dimostrazione della incostituzionalità del sistema delineato: “il perdurante necessario rispetto dei principi di sufficienza e di adeguatezza delle pensioni impone al legislatore, pur nell’esercizio del suo potere discrezionale di bilanciamento tra le varie esigenze di politica economica e le disponibilità finanziarie di individuare un meccanismo in grado di assicurare un reale ed effettivo adeguamento dei trattamenti di quiescenza alle variazioni del costo della vita (. .. ) Con la conseguenza che il verificarsi di irragionevoli scostamenti dell’entità delle pensioni rispetto alle effettive variazioni del potere di acquisto della moneta sarebbe indicativo della inidoneità del meccanismo in concreto prescelto ad assicurare al lavoratore e alla sua famiglia mezzi adeguati ad una esistenza libera e dignitosa nel rispetto dei principi e dei diritti sanciti dagli articoli 36 e 38 della Costituzione” (cfr. Corte Costituzionale, sentenza n. 30/2004).

Il c.d. rimborso forfettario, che solo in percentuale prevede il ristoro di quanto si discute (si sottolinea in minima parte, ovvero pari al 40% da € 1.500,00 ad € 2.000,00; pari al 20% da € 2.001,00 ad € 2.500,00; pari al 10% da € 2.501,00 ad € 3.000,00), non è assolutamente idoneo a superare i detti precetti costituzionali, avendo la Consulta statuito la rivalutazione “nella misura del 100%”.

A mero titolo indicativo si segnala che dai primi calcoli effettuati, la penalizzazione subita dai pensionati partendo dal gennaio 2012 si aggira da un minimo di € 1.674,00 circa sino ad un massimo di € 5.171,00 netti (per le pensioni oltre i 3.000,00 euro circa), a cui dovranno detrarsi i rimborsi previsti per le tre fasce dalla L. n. 109/2015.

Ma ciò che appare più rilevante è che la L. n. 109/2015 prevede, con efficacia retroattiva rispetto ai diritti maturati nel 2012-2013, la rivalutazione della pensione per gli anni 2014, 2015 e 2016 solo in ragione delle percentuali del 95%, 75% e 50% per le fasce pensionistiche da tre a sei volte il minimo della pensione sociale, senza nulla accordare alle pensioni a sei volte il minimo del trattamento pensionistico.

La mancata rivalutazione, violando il principio di proporzionalità tra pensione e retribuzione e quello di adeguatezza della prestazione previdenziale, altera il principio di eguaglianza e ragionevolezza, causando una irrazionale discriminazione in danno dei pensionati.

Sotto tale profilo, la ragionevolezza delle finalità sopra illustrate consente di predisporre e perseguire un progetto di eguaglianza sostanziale, conforme al dettato dell’art. 3, secondo comma, Costituzione così da evitare disparità di trattamento in danno dei destinatari dei trattamenti pensionistici.

Nell’applicare al trattamento di quiescenza, configurabile quale retribuzione differita, il criterio di proporzionalità alla quantità e qualità del lavoro prestato (art. 36, primo comma, Cost.) e nell’affiancarlo al criterio di adeguatezza (art. 38, secondo comma, Cost.), la Corte Costituzionale ha tracciato un percorso coerente per il legislatore, con l’intento di inibire l’adozione di misure disomogenee e irragionevoli (tra tante, Corte Costituzionale sentenze nn. 208/2014, 116/2013, 316/2010, 441/1993; ordinanze nn. 202/2006 e 531/2002).

Il rispetto dei parametri citati si fa tanto più pressante per il legislatore, quanto più si allunga la speranza di vita e con essa l’aspettativa, diffusa fra quanti beneficiano di trattamenti pensionistici, a condurre un’esistenza libera e dignitosa, secondo il dettato dell’art. 36 Cost..

Si profila con chiarezza, a questo riguardo, il nesso inscindibile che lega il dettato degli artt. 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost. A fronte di un nesso inscindibile che lega il dettato degli artt. 36, co. 1, e 38, co. 2, Cost. (fra le più recenti, Corte Costituzionale, sentenza n. 208/14, che richiama Corte Costituzionale, sentenza 22.12.1993, n. 441), il legislatore non ha proposto un corretto bilanciamento dei parametri costituzionali sopra individuati, invocando una generica esigenza di un risparmio di spesa che, in verità, si pone in aperto contrasto con l’ineludibile vincolo di scopo «al fine di evitare che esso possa pervenire a valori critici, tali che potrebbero rendere inevitabile l’intervento correttivo della Corte» (in termini, Corte Costituzionale, sentenza 12.05.1993, n. 226).

Sotto quest’ultimo aspetto, si osserva come il sistema degli scaglioni adottato dal legislatore comporti delle evidenti disparità di trattamento. A conferma di ciò, di seguito si riporta la tabella della rivalutazione spettante per effetto della sentenza della Corte Costituzionale n. 70/2015, nonché quella spettante ai sensi del D.L. n. 65/2015.

 – Rivalutazione spettante ai sensi della sentenza della Corte Costituzionale:

  • 100 % di adeguamento per la fascia di importo non superiore ad € 1.405,05 (tre volte il trattamento minimo INPS);
  • 90% di adeguamento per la fascia di importo compresa tra € 1.405,05 e fino ad € 2.341,75 (tre volte e cinque volte il trattamento minimo INPS);
  • 75% di adeguamento per la fascia di importo superiore ad € 2.341,75 (superiore a cinque volte il trattamento minimo INPS).

 – Rivalutazione spettante ai sensi del D.L. n. 65/2015:

  • 100% di adeguamento per le pensioni complessivamente pari o inferiori ad € 1.405,05;
  • b) 40% di adeguamento per le pensioni complessivamente superiori ad € 1.405,05 e pari o inferiori ad € 1.873,40;
  • c) 20% di adeguamento per le pensioni complessivamente superiori ad € 1.873,40 e pari o inferiori ad € 2.341,75;
  • d) 10% di adeguamento per le pensioni per le pensioni complessivamente superiori ad € 2.341,75 e pari o inferiori ad € 2.810,10;
  • e) 0% di adeguamento per le pensioni per le pensioni complessivamente superiori ad € 2.810,10.

Dal semplice raffronto delle succitate tabelle, appare assolutamente palese come il criterio della proporzionalità sia stato del tutto disatteso, con conseguente lesione del diritto alla rivalutazione spettante ai pensionati.

La Corte Costituzionale, pur avendo riconosciuto (v. sentenza n. 316/2010) la legittimità di temporanee sospensioni della perequazione, anche se limitate alle pensioni di importo più elevato, ha precisato che la ragionevolezza complessiva del sistema dovrà essere apprezzata nel quadro del contemperamento di interessi di rango costituzionale, alla luce dell’art. 3 Cost..In realtà, con ciò si intende evitare che una generalizzata esigenza di contenimento della finanza pubblica possa risultare sempre e comunque valido motivo per determinare la compromissione di diritti maturati o la lesione di consolidate sfere di interessi, sia individuali, sia anche collettivi (v. Corte Costituzionale, sentenza n. 92/2013).

Pertanto, il comma 25 dell’art. 24 del D.L. n. 201/2011, convertito con modificazioni in L. n. 214/2011, così come modificato dal D.L. n. 65/2015, convertito nella L. n. 109/2015, è da ritenersi incostituzionale, con riferimento agli artt. 3, 36, I co. e 38, II co., della Costituzione per assoluta violazione dei principi di ragionevolezza e proporzionalità, essendo in palese contrasto proprio con quanto stabilito dalla stessa Corte Costituzionale nella citata sentenza n. 70/2015.

 

c) Violazione degli artt. 2 e 3 della Costituzione

Il paragone tra l’assenza del diritto alla perequazione garantito costituzionalmente e l’art. 1 del D.L. n. 65/2015, al fine di individuare se esso sia o no conforme alla Carta fondamentale dello Stato, va condotto altresì in relazione agli artt. 2 e 3 della Costituzione.

A ben vedere, in plateale violazione degli artt. 2 e 3 della Costituzione, l’apparato normativo qui censurato prevede l’esatto contrario delle regole dettate dalle norme costituzionali succitate, laddove dispone la irragionevole limitazione della perequazione del trattamento pensionistico del ricorrente per gli anni 2012-13 reiterando un trattamento empiricamente sperequativo e tratteggiato in palese violazione dei limiti di proporzionalità e adeguatezza (naturali corollari dei principi di solidarietà ed eguaglianza dei dati costituzionali di cui agli articoli 2 e 3 della Carta costituzionale).

Invero, per avvalorare la censura di incostituzionalità che affligge il D.L. n. 65/2015 per evidente violazione degli artt. 2 e 3 della Costituzione, appare adeguato e sufficiente in questa sede il richiamo della sentenza n. 70/2015 della Corte Costituzionale, con la quale ha statuito in materia di (non) conformità a costituzione dei meccanismi legislativi di blocco e/o limitazione della operatività dell’automatismo perequativo delle pensioni di cui alla originaria formulazione del comma 25 art. 24 del D.L. n. 201/2011. In particolare, secondo la Corte, il comma anzidetto collideva con i profili della proporzionalità e ragionevolezza imposti dal rispetto dei principi costituzionali valevoli in materia in ragione dalla natura “draconiana” della previsione che escludeva tout court i trattamenti pensionistici di importo superiore a tre volte il minimo INPS dalla possibilità di essere perequati.

A fronte di tale statuizione il legislatore era chiamato ad intervenire per emendare la legge dai profili di illegittimità concretamente accertati.

La mera lettura del dato normativo evidenzia come, al contrario, l’intervento abbia solo formalmente epurato il sistema dalle illiceità riscontrate arrivando, invero a peggiorare per alcune categorie la disciplina già dichiarata incostituzionale.

L’obiettivo del legislatore avrebbe dovuto essere quello di definire una modalità di calcolo per restituire gli arretrati agli aventi diritto e tale da risultare al contempo rispondente sia alle esigenze di equilibrio della spesa pubblica (esigenza di rilevanza costituzionale) sia ai principi enunciati dalla Corte Costituzionale, riferiti segnatamente all’adeguatezza e alla proporzionalità dei trattamenti pensionistici.

La tecnica legislativa utilizzata è stata quella di dare nuova formulazione dell’art. 24 comma 25 del D.L. 201/2011 e, dall’altro lato, nell’aggiunta – nel medesimo articolo – dei comma 25 bis e 25 ter, con ciò delineandosi una nuova regolamentazione avente efficacia retroattiva del meccanismo perequativo per gli anni 2012-2013 caratterizzato dalle medesime illiceità costituzionali ed anzi ad avere effetti pratici ben oltre il biennio interessato dall’intervento correttivo.

Una ineffabile e pervicace volontà del legislatore di perseverare nelle illegittimità già stigmatizzate come incostituzionali della precedente formulazione del comma 25 dell’art. 24 del D.L. n. 201/2011 resa evidente da quanto appresso sottolineato sul portato pratico del combinato disposto dal novellato comma 25 e dei commi 25 bis e 25 ter dell’art. 24 del D.L. n. 201/2011 introdotti con la normativa impugnata.

Le disposizioni in oggetto hanno previsto che le pensioni interessate dalla rivalutazione (id est quelle il cui importo nel 2011 e nel 2012 è ricompreso tra tre e sei volte il trattamento minimo INPS vigente nei medesimi anni), siano sottoposte a tre diverse ricostituzioni, che producono effetti finanziari a titolo di arretrati o di importo in pagamento nel 2012 e nel 2013 (comma 25), nel 2014 e nel 2015 (comma 25 bis, lettera a), a decorrere dal 2016 (comma 25 bis, lettera b) oltre a prevedere che gli importi così ottenuti saranno poi soggetti alle norme vigenti sulla perequazione dal 2014 (25 ter).

Il blocco della perequazione automatica permane, invero, come strutturale per le pensioni eccedenti sei volte il minimo INPS.

L’enormità delle conseguenze in termini di effettivo depauperamento del potere di acquisto anche per le pensioni formalmente gratificate dal ripristino del sistema perequativo non merita, invero, alcuna ulteriore considerazione se non quella amara sulla palese irrisione dei diritti del ricorrente. In altro senso non può leggersi il simulacro di tutela introdotta con le novelle di cui al D.L. n. 65/2015 che riconoscono (quando lo fanno) risibili percentuali di rivalutazione che si traducono – alla luce della limitazione percentuale riconosciuta ai fini del trascinamento sugli anni successivi – in valori prossimi allo zero anche per coloro che, invero, formalmente vengono “graziati” di un intervento correttivo.

Tale la contestualizzazione risulta inoppugnabile la lesione lamentata in quanto l’intervento normativo sostanzia e rinnova la generalizzata paralisi del meccanismo perequativo per gli anni 2012/2013 (totale e/o parziale poco rileva giusto il portato pratico delle novelle come appena sopra esemplificato) già sancita come incostituzionale dalla sentenza n. 70/2015: “il mancato adeguamento delle retribuzioni (come delle pensioni) equivale ad una loro decurtazione in termini reali con effetti permanenti, ancorché il blocco sia formalmente temporaneo, non essendo previsto alcun meccanismo di recupero, con conseguente violazione degli artt. 3, 36 e 38 Cost” e che “tale blocco incide sui pensionati, fascia per antonomasia debole per età ed impossibilità di adeguamento del reddito – come evidenziato dalla Corte Costituzionale – secondo la quale i redditi derivanti da trattamenti pensionistici non hanno, per loro origine, una natura diversa e minoris generis rispetto ad altri redditi presi a riferimento…” .

 

d) Violazione dell’art. 117 comma 1 della Costituzione rispetto all’art. 6 Convenzione E.D.U.

Non di minore rilievo è la censura di incostituzionalità che affligge l’art. 117 comma 1 della Costituzione in relazione all’art. 6 della Convenzione Europea. A tal riguardo, la violazione del ne bis in idem costituzionale è stata sollevata da altra ordinanza di rimessione alla Corte (così, Tribunale di Cuneo, sez. lav., ordinanza 18.11.2016), sotto un nuovo e diverso profilo, quello della violazione del diritto all’equo processo garantito dall’art. 6, comma 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), quale parametro interposto ex art. 117 Costituzione.

Nel fissare la portata e l’interpretazione dei questo articolo, la Corte Europea dei diritti dell’Uomo ha avuto l’occasione, non molto tempo fa (sentenza CEDU 3 settembre 2013, n. 5376), di ribadire i principi che devono presiedere alla normativa circa l’ammissione di leggi retroattive, anche se di interpretazione autentica, statuendo che “…il principio della preminenza del diritto e la nozione di processo equo sanciti dall’articolo 6§ 1 si oppongono, a meno che non sussistano imperiosi motivi di interesse generale, all’ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia allo scopo di influenzare l’esito giudiziario della lite… Uno degli elementi fondamentali della preminenza del diritto è il principio della certezza dei rapporti giuridici che vuole, tra l’altro, che la soluzione data in maniera definitiva a qualsiasi lite dai tribunali non sia più rimessa in causa”.

In altri termini, la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo è particolarmente rigorosa nell’ammettere leggi retroattive che abbiano l’effetto di neutralizzare decisioni giudiziali. Infatti,  anche norme di interpretazione autentica (come tali, necessariamente retroattive) possono violare il diritto all’equo processo ex art. 6 comma 1 CEDU laddove non sussistano situazioni di incertezza giuridica, senza che, dall’altra parte, esigenze finanziarie siano di per sé sole idonee a giustificare simili interventi, poiché non corrispondenti ad un “imperioso motivo di interesse generale”.

Invero, come già osservato in precedenza, lo jus superveniens è intervenuto provvedendo, con efficacia retroattiva, su una materia la cui disciplina era, a seguito dell’espunzione della norma ad opera della declaratoria di incostituzionalità, del tutto completa e chiara.

Il diritto alla perequazione automatica del trattamento pensionistico per gli anni 2012 e 2013 sarebbe stato infatti assoggettato al meccanismo di cui all’art. 69, comma 1, L. n. 388/2000.

La regolamentazione retroattiva ha avuto, peraltro, natura radicalmente innovativa e non interpretativa, semplicemente disponendo, con riferimento agli stessi anni ai quali si riferiva la declaratoria di incostituzionalità, in modo diverso da quest’ultima. In verità, non si pone alcun problema di interpretazione della norma, essendo invece intervenuta una declaratoria di incostituzionalità che ha, semplicemente, espunto dall’ordinamento la norma censurata, di talché il D.L. n. 65/2015 ha introdotto una nuova e diversa disciplina rispetto a quella risultante dalla pronuncia della Consulta, per di più con efficacia retroattiva.

Con il D.L. n. 65/2015 è stata dunque frustrata la tutela giurisdizionale del cittadino, e quindi il suo diritto ad un equo processo, che, nel caso di specie, consisteva nel vedersi applicare la disciplina della perequazione delle pensioni risultante dalla declaratoria di incostituzionalità, affidamento del tutto legittimo (poiché basato sulle rispettive competenze degli organi dello Stato nonché sulla certezza giuridica di cui il rispetto del giudicato – tanto più il giudicato costituzionale – costituisce componente fondamentale), che è stato invece disatteso.

Ciò appare in contrasto con l’art. 6, comma 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e quindi con l’art. 117 della Costituzione (sul punto, v. Corte Costituzionale, sentenze nn. 348 e 349 del 2007: “L’art. 117 comma 1° Cost. condiziona l’esercizio della potestà legislativa dello Stato e delle regioni al rispetto degli obblighi internazionali, fra i quali rientrano quelli derivanti dalla convenzione europea dei diritti dell’uomo, le cui norme pertanto, così come interpretate dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, costituiscono fonte integrante del parametro di costituzionalità introdotto dall’art. 117, 1° comma Cost., e la loro violazione da parte di una legge statale e regionale comporta che tale legge deve essere dichiarata illegittima dalla Corte Costituzionale, sempre che la norma della convenzione non risulti a sua volta in contrasto con una norma costituzionale”).

Ed è appena il caso di ricordare che la Corte Costituzionale con le citate sentenze n. 348 e 349 del 2007 ha imposto ai Giudici di proporre (anche d’ufficio) il giudizio di costituzionalità incidentale, per violazione del primo comma dell’art. 117 della Costituzione, tutte le volte in cui la violazione di uno dei diritti fondamentali riconosciuti dalla Costituzione e dalla CEDU dedotta in giudizio appare rilevante ai fini della decisione del merito e non manifestamente infondata. Come si vede nel nostro ordinamento giuridico oggi finalmente esiste, per merito della stessa Corte Costituzionale, il “diritto al ricorso effettivo” previsto sia dal novellato articolo 111 della Costituzione (in tempi ragionevoli) e sia dall’art. 13 della CEDU. Si è trattato di un balzo di civiltà giuridica notevole, che va adeguatamente utilizzato.

 

4. Conclusioni

Alla luce delle suesposte considerazioni e sulla scorta dell’autorevole interpretazione fornita dalla Corte Costituzionale, risulta di tutta evidenza l’illegittimità costituzionale del comma 25 dell’art. 24 del D.L. n. 201/2011, convertito con modificazioni in L. n. 214/2011, così come modificato dal D.L. n. 65/2015, convertito nella L. n. 109/2015, per contrasto con gli artt. 3, 36, comma I, e 38, comma II, Cost., atteso che, a fronte della definitiva ed irrisoria indicizzazione della pensione, tale norma ha chiaramente valicato i limiti di ragionevolezza e proporzionalità, con inevitabile pregiudizio per il potere di acquisto del trattamento stesso e con irrimediabile vanificazione delle aspettative legittimamente nutrite dai pensionati per il tempo successivo alla cessazione della propria attività.

E ancora, il Legislatore non ha previsto per i pensionati, titolari di un trattamento pensionistico superiore a sei volte il minimo Inps, alcuna modalità di recupero della somma oggetto di blocco della perequazione per il triennio 2012-2014, con evidente violazione degli artt. 3, 36 co. 1 e 38 co. 2 Cost., in quanto il criterio adottato è irragionevole, lesivo del principio di proporzionalità tra pensione e retribuzione, nonché del principio di adeguatezza.

Come emerge dalla lettura della giurisprudenza della Corte Costituzionale, gli effetti permanenti dei blocchi della perequazione, soprattutto se reiterati, non possono essere costituzionalmente accettati, poiché creano un vulnus perpetuo ed irrimediabile all’adeguatezza della pensione di cui all’art. 38 Costituzione, alla luce anche dell’art. 36 Costituzione.

Invece il “contributo di solidarietà”, è transitorio: le somme mensili trattenute per un breve periodo – e solo alle pensioni davvero elevate – non intaccano l’ammontare futuro della pensione, che al termine del sacrificio riprenderà il suo pieno potere d’acquisto ordinario.

Il pensionato con il contributo di solidarietà viene sottoposto ad un sacrificio transitorio, ma il quantum a lui spettante in base ai contributi versati non viene intaccato.

Al contrario con il blocco della perequazione si vengono ad “amputare” per sempre alcuni elementi costitutivi della pensione (ovvero gli anni di blocco), e di conseguenza il trattamento pensionistico ne risulterà per sempre vulnerato.

Per fare un esempio concreto si pensi agli effetti sulla futura pensione di reversibilità. Se il Legislatore blocca la perequazione, si intaccherà anche la futura pensione di reversibilità.

Al contrario se il Legislatore ricorre ad un momentaneo prelievo, senza intaccare il quantum spettante, la percentuale della futura reversibilità (60%) verrà calcolata sul valore pieno della pensione.

La pretesa del Legislatore di fronteggiare una “contingente situazione finanziaria” mediante una riduzione permanente della pensione (che resterà anche quando quella contingenza sarà ormai passata), appare irragionevole e sproporzionata allo scopo, poiché i mezzi usati per una compressione dei diritti costituzionali eccedono i fini che si ci è proposti, andando ben al di là del momentaneo bilanciamento di valori costituzionali contrapposti (fra diritti ex artt. 36 e 38 e doveri di solidarietà ex art. 2 Cost.).

Questo è stato insegnato ancora di recente dalla Corte Costituzionale, con la citata sentenza n. 173/16 sul “contributo di solidarietà”, in cui sono stati posti precisi limiti anche ad esso, sebbene questo sia transitorio.

La Corte, pur respingendo la eccezione di costituzionalità, ha ribadito il divieto di una sua reiterazione: “un contributo sulle pensioni costituisce, però, una misura del tutto eccezionale, nel senso che non può essere ripetitivo e tradursi in un meccanismo di alimentazione del sistema di previdenza. [….]. In definitiva, il contributo di solidarietà, per superare lo scrutinio “stretto” di costituzionalità, e palesarsi dunque come misura improntata effettivamente alla solidarietà previdenziale (artt. 2 e 38 Cost.), deve ……essere comunque utilizzato come misura una tantum.”

Se, dunque, neppure un contributo ad effetti transitori può essere reiterato (ed anzi deve invece costituire una “misura una tantum”), a maggior ragione risulterà del tutto inammissibile un blocco della perequazione che solo apparentemente è transitorio, ma che in realtà produce effetti non solo reiterati, ma addirittura permanenti, fino ad intaccare addirittura anche le stesse pensioni di reversibilità.

Si richiama, a tal proposito, l’insegnamento della Corte Costituzionale (cfr. sentenza 10/06/2014, n. 162) secondo cui: “la giurisprudenza costituzionale «ha desunto dall’art. 3 Cost. un canone di “razionalità” della legge svincolato da una normativa di raffronto, rintracciato nell’”esigenza di conformità dell’ordinamento a valori di giustizia e di equità” […] ed a criteri di coerenza logica, teleologica e storico-cronologica, che costituisce un presidio contro l’eventuale manifesta irrazionalità o iniquità delle conseguenze della stessa» (sentenza n. 87 del 2012). Lo scrutinio di ragionevolezza, in ambiti connotati da un’am-pia discrezionalità legislativa, impone, inoltre, a questa Corte di verificare che il bilanciamento degli interessi costituzionalmente rilevanti non sia stato realizzato con modalità tali da determinare il sacrificio o la compressione di uno di essi in misura eccessiva e pertanto incompatibile con il dettato costituzionale. Tale giudizio deve svolgersi «attraverso ponderazioni relative alla proporzionalità dei mezzi prescelti dal legislatore nella sua insindacabile discrezionalità rispetto alle esigenze obiettive da soddisfare o alle finalità che intende perseguire, tenuto conto delle circostanze e delle limitazioni concretamente sussistenti» (sentenza n. 1130 del 1988). A questo scopo può essere utilizzato il test di proporzionalità, insieme con quello di ragionevolezza, che «richiede di valutare se la norma og-getto di scrutinio, con la misura e le modalità di applicazione stabilite, sia necessaria e idonea al conseguimento di obiettivi legittimamente perseguiti, in quanto, tra più misure appropriate, pre-scriva quella meno restrittiva dei diritti a confronto e stabilisca oneri non sproporzionati rispetto al perseguimento di detti obiettivi» (sentenza n. 1 del 2014)”.

Secondo la citata sentenza n. 173/16, il Legislatore incontra dei limiti costituzionali anche per sospendere transitoriamente le pensioni superiori a 14 volte la minima (oltre € 7.019,32 mensili, pari ad € 91.251,16 annui).

Quindi è del tutto inconcepibile che possa arbitrariamente bloccare in modo permanente le pensioni di fascia bassa, che superano soltanto le tre volte la minima, ovvero € 1.217 netti (pari € 1.405,05 lordi mensili e € 18.265,65 lordi annui).

Se la prima norma di legge che così aveva disposto era già stata dichiarata incostituzionale dalla sentenza n.70/15, il Decreto Legge 65/15 ha rinnovato l’identica forzatura, limitando il diritto anche per le pensioni  che superano anche solo le 3 volte la minima, e con l’aggravante di inserirla in un provvedimento che al contrario vorrebbe far credere di essere “attuativo” della sentenza della Corte Costituzionale.

Senonché le pensioni fino a 5 volte la minima mai erano state bloccate negli anni passati dai precedenti provvedimenti, poiché anche il precedente blocco 1998/2000 (art. 59, co. 13, legge 449/97) iniziava dalle pensioni di oltre 5 volte la minima, ed il successivo blocco del 2008 partiva da oltre 8 volte la minima (art. 1, co. 19, l. 24/12/2007 n. 247).

Il solo blocco della perequazione del biennio 2012/13 è pari ad oltre il 5% della pensione, come abbiamo visto.

La situazione è però ancora più grave se si considerano unitariamente anche i blocchi degli anni precedenti, che tuttora continuano a produrre i loro effetti perversi.

Infatti il Legislatore a partire dal 1998 ha (troppo) spesso congelato la perequazione automatica delle pensioni. Si è trattato precisamente dei seguenti anni: 1) 1998 (norme di legge sul blocco: art. 59, co. 13, L. n. 449/97) 1,70% (Istat) D.M. 20.11.1998 (fonte); 2) 1999 (norme di legge sul blocco: art. 59, co. 13, L. n. 449/97) 1,80% (Istat) D.M. 20.11.1998 (fonte); 3) 2000 (norme di legge sul blocco: art. 59, co. 13, L. n. 449/97) 1,60% (Istat) D.M. 20.11.2000 (fonte); 4) 2008 (norme di legge sul blocco: art. 1, co. 19, L. n. 247/07) 1,70% (Istat) D.M. 20.11.2008 (fonte); 5) 2012 (norme di legge sul blocco: art. 24, co. 25, D. L. n. 201/11) 2,70% (Istat) D.M. 26.11.2012 (fonte); 6) 2013 (norme di legge sul blocco: art. 24, co. 25, D. L. n. 201/11) 3,00% (Istat) D.M. 29.11.2013 (fonte); 7) 2014 – 1,10% (Istat) D.M. 20.11.2014 (fonte).

La somma di questi blocchi porta ad una perdita della pensione complessiva del 14,40 % (calcolato su base composta).

La sentenza della Corte n. 70/15 ha esattamente osservato che “Non è stato dunque ascoltato il monito indirizzato al legislatore con la sentenza n. 316 del 2010.”

Infatti già nel 2010 la Corte (v. sentenza 316/10), esaminando la normativa sul blocco del 2008 (art. 1, comma 19, della legge 24/12/2007 n. 247), aveva avvertito con chiarezza che la frequente reiterazione” dei blocchi della perequazione avrebbe portato all’incostituzionalità della normativa, “perché le pensioni, sia pure di maggiore consistenza, potrebbero non essere sufficientemente difese in relazione ai mutamenti del potere d’acquisto della moneta”.

Malgrado questo chiaro avvertimento della Corte Costituzionale nel 2010, il Legislatore – dopo solo un anno – ha nuovamente bloccato la perequazione delle pensioni per gli anni 2012 e 2013 (art. 24, comma 25, del Decreto Legge 201/11, convertito nella legge 214/11).

Questa volta, però, la normativa che aveva reiterato incautamente il blocco, per di più con estensione biennale e non solo annuale, non ha potuto sottrarsi alla dichiarazione di incostituzionalità ad opera della citata sentenza n. 75/2015.

Tale sentenza, secondo il costante insegnamento della Corte Costituzionale risalente al 1963, non può essere vanificata da una nuova legge che miri ad escludere i suoi effetti: qui è in gioco il sistema delle garanzie costituzionali. In questi casi la Corte è sempre intervenuta severamente, come ancora di recente nella sentenza 20.10.2016 n. 224: “Questa Corte ha già stigmatizzato (ex plurimis, sentenza n. 169 del 2015) le disposizioni con cui il legislatore, statale o regionale, interviene per mitigare gli effetti di una pronuncia di illegittimità costituzionale, per conservare o ripristinare, in tutto o in parte, gli effetti della norma dichiarata illegittima”.

Ciononostante, la riproposizione nel testo novellato di tutte le incongruenze costituzionali già (ampiamente e reiteratamente) stigmatizzate nei precedenti giurisprudenziali della Consulta appalesa il concreto integrarsi dei vizi di illegittimità costituzionali rilevati. Tutto questo con buona pace del meccanismo virtuoso che dovrebbe presiedere i rapporti tra le decisioni della Consulta e l’operato del legislatore, sicché mala tempora currunt sed peiora parantur in caso l’ordinamento non opponga una ferma resistenza ad una così smaccata inottemperanza ai crismi di legittimità costituzionale concretamente tracciati dalla Corte Costituzionale.

In conclusione, si auspica che la Corte Costituzionale, investita nuovamente della questione del blocco delle perequazioni, dichiari l’incostituzionalità delle vigenti disposizioni di legge che lo limitano, lo comprimono e ne alterano l’efficacia e l’effettività, riconoscendo ai pensionati la pienezza del loro diritto alla perequazione della pensione così come costituzionalmente garantito dalle invocate norme costituzionali e sovranazionali.

 

Siracusa, 25.04.2017

Giorgio Seminara

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