La difficoltà di chiudere i bilanci comunali sembra invece il segnale eloquente di un sistema amministrativo in affanno, che vede sempre più spesso i Comuni a intraprendere operazioni straordinarie (dismissioni immobiliari, alienazioni societarie o, peggio, avventure di finanza creativa) non già per diversificare il portafoglio degli investimenti, quanto piuttosto per coprire il fabbisogno di spese correnti, legate al pagamento degli stipendi del personale o all’erogazione dei servizi sociali di carattere primario ed essenziale.
Paragonando le finanze dell’Ente locale con un bilancio familiare, molti sindaci assomigliano ormai al pater familias che, per sopperire alle necessità del nucleo familiare e sbarcare il lunario, inizia a metter mano al patrimonio della casa, vendendo ora un armadio, dopo un certo tempo i gioielli, e poi ancora una serie di preziose stampe antiche.
Quale famiglia, o quale società per azioni potrebbe pianificare la propria attività in questa logica irresponsabile, senza dover giungere prima o poi alla dichiarazione di fallimento?
E infatti si allunga a vista d’occhio la lista degli Enti locali in dissesto, che si trovano nella nefanda impossibilità garantire l’assolvimento delle funzioni e dei servizi indispensabili alla cittadinanza.
Il cambiamento di rotta che s’impone esige una revisione del nostro stile di vita (anche sociale e amministrativa, oltre che individuale), con l’avvento di amministratori saggi che siano in grado prima di tutto di leggere i segnali di criticità odierni, e siano poi capaci di razionalizzare la spesa pubblica a livello locale, riconducendo per gradi l’Ente locale a fare il passo secondo la gamba.
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