Provare a riconoscere un senso in tutto ciò è un’impresa che sarebbe anche raccomandabile, se non fosse che i sensi possibili non è che siano molti, e che, anche dopo averli raccolti tutti in un pugno di ipotesi, esse non siano alla fine entusiasmanti. Un’ipotesi che viene in mente a chi scrive è che questa classe politica ha seguito ogni raccomandazione europea, magari sporcandola con leggere imperfezioni, sufficienti ad esagerare le possibilità depressive, solo per dimostrare ai nostri partners e creditori che la via richiesta dalla c.d. Troika (UE, BCE e FMI) sia insostenibile. Se non dovesse riuscire questa ipotizzata strategia non è neanche il caso di dire che gli effetti potrebbero essere ancora peggiori rispetto all’aver seguito semplicemente e con scrupolo le richieste internazionali, perché la capacità produttiva, se innumerevoli aziende sono arrivate alla chiusura, si è per forza ridotta, non lasciando solo fette di mercato, che potrebbe essere anche positivo, o almeno indolore, ma debilitando ulteriormente i consumi interni per via del “passeggio” (chomage in francese, che significa appunto disoccupazione) in cui hanno lasciato migliaia di lavoratori e piccoli e medi imprenditori, non sostituiti da nuovi imprenditori e lavoratori.
Se non ci fosse stata questa sostituzione, l’unico effetto sarebbe strutturale ed andrebbe a riscontrarsi sulla capacità di spesa di ogni italiano, oltre che sulla capacità produttiva italiana. A ben pensarci mancherebbe solo, visto il numero di versioni cinematografiche, una subdola trasmissione televisiva dei films o dei tanti sceneggiati tratti da “Les Miserables” di Victor Hugo, per dimostrare che anche il sistema mediatico sta coscientemente concorrendo alla distruzione dei consumi in Italia.
Dai consumi e dalla dinamica dei prezzi, però, discende, anche se in molti scienziati lo mettano ora in discussione, la dinamica dell’occupazione: secondo la Legge di Phillips (o curva), economista neozelandese che ha studiato nel secolo passato le variabili dell’inflazione e dell’occupazione in rapporto tra di loro, con un’inflazione decrescente (e sembra che stiamo vivendo in Italia proprio una fase comparabile) anche il tasso di occupazione sarà decrescente. La curva, proprio perché molto intuitiva, è facile da comprendere. Più salgono i prezzi e più valore viene dato al lavoro che quei prezzi li ha determinati. Spendendo, i soldi vengono messi in circolo per incontrare l’offerta e che è stimolata ad aumentare, dunque necessita, per comporsi, di nuovi lavoratori che la possano sostenere. I nuovi lavoratori avranno capacità di spesa suppletiva che andrà a consumare l’offerta aggregata che essi hanno prodotto. L’Economia del Lavoro si basa anche su questa relazione, che è risultata smentita solo durante la crisi petrolifera degli anni ’70, che era una crisi dell’offerta di una materia prima, sulle cui caratteristiche sono ancora incerti e titubanti gli storici. I prezzi del petrolio salivano, la produzione che utilizzava idrocarburi per funzionare doveva rivedere al ribasso le proprie spese, l’occupazione ne risentiva ineludibilmente, al punto che vi erano enormi sacche di disoccupati e contemporaneamente inflazione galoppante, giunta in Italia perfino ad avere due cifre. Nonostante la storia dell’economia non abbia ancora trovato la quadra nell’analisi sulla crisi petrolifera degli anni ’70, l’ipotesi che viene qui accreditata è che fosse effetto di uno shock pilotato dai petrolieri per garantirsi porzioni di potere nella battaglia economica che ci fu a seguito della fine della guerra fredda, essendo i consumi di idrocarburi ridottisi drasticamente.
Ad ogni buon conto i prezzi salivano e la disoccupazione aumentava, ma ora lo stato delle cose è molto diverso, dato che, almeno in Italia, i prezzi intravedono di nuovo, dopo la flessione che abbiamo visto dal 2008 fino al 2011, accompagnata dall’inizio della pendenza della dinamica occupazionale, una nuova curva negativa tendenziale dell’inflazione. L’unica differenza, a voler essere fiscali, è che adesso questa bolla pesa solo sul Sud Europa, visto che l’Inghilterra, rimasta lontana dalla moneta unica, richiama lavoratori da tutto il continente, domandandosi se possa permettersi frontiere così aperte per il mercato del lavoro come le impone il Trattato di Schengen, la Germania ha chiamato crisi una flessione della produzione interna mai arrivata sotto lo zero, l’Irlanda, che pure aveva sguazzato con il mercato dei derivati molto più di tanti, ha già visto la fine del tunnel, mentre Spagna, Italia e Grecia, ognuna con caratteristiche quasi scientificamente diverse, devono subire ancora le nubi nere della crisi (prima globale, poi europea, infine solo sud europea). La Francia, trovandosi la stessa a discutere delle relazioni private del Presidente, in luogo di ragionare apertamente delle proprie possibilità di sviluppo, non sembra all’altezza della sorella maggiore tedesca e probabilmente dovrà confrontarsi ancora un po’ con andamenti non entusiasmanti dell’occupazione.
Ma allora, se l’OCSE aveva detto, fin dal 2008, che saremmo noi italiani risaliti dalla crisi (da quella globale) alla fine del 2013, se abbiamo visto altre due sub-stagioni negative (europea e sud europea), se gli indici della produzione industriale hanno ricominciato a salire proprio nel terzo/quarto trimestre 2013, la domanda che sorge da sola è di cosa siamo stati a discutere finora e soprattutto di cosa stiamo discutendo ora. In USA la crisi è durata, dal punto di vista occupazionale, due anni esatti. In Europa e sul suo Sud ancora perdura, al punto che non risulterebbe dietrologia ipotizzare:
– che la crisi dei derivati, controllata agevolmente dagli USA, sia stata strumento per nuove regolazioni politiche mondiali;
– che la crisi c.d. europea sia stata controllata, come da copione, dalla Germania, per imporre le regole che essa richiedeva invano all’UE;
– che il nostro debito pubblico è ciò che ci mantiene lontano non solo dallo sviluppo ma anche dai poteri europei (controllare il terzo Stato in valore assoluto più indebitato del mondo non conviene a nessuno).
Le nuove regolazioni politiche mondiali, a seguito della caduta del terrorismo e della frustrazioni dei sogni di gloria arabeggianti, non si possono negare; il fatto che la Germania abbia assunto il ruolo di guida economica e politica dell’UE neanche; che il nostro debito pubblico, se gestito in autonomia, come fanno gli USA o il Giappone, e, soprattutto, se non dipendente da nugoli di poteri che riescono a vivere solo a scapito dei cittadini italiani, fa paura al punto da essere argomento per respingere le mani dell’UE che vorrebbero, amichevolmente, abbracciarci.
La speranza di chi scrive è che queste ipotesi, che restano ipotesi, seppur nella speranza che si possano dimostrare empiricamente, possano giungere a stimolare una più profonda riflessione in chi legge, nonostante il sistema mediatico, pubblico e privato, di partito e libero, ci abbia fatto trascorrere un Natale all’insegna dell’austerità, non veicolando le informazioni positive che arrivavano (come la produzione industriale) ma, anzi, facendo di tutto per inficiarne gli effetti sui consumatori, e che ora continua a pretendere che cose insulse, come la legalizzazione della cannabis o il matrimonio omosessuale, o ancora dove il Ministro Kyenge intervenga oggi o domani, o ancora con chi ha parlato questo o quel Ministro, o il reato di immigrazione clandestina in un momento dove chi si volesse stabilire in Italia venendo dal terzo mondo invece di proseguire per economie più importanti sarebbe meritevole di visita psichiatrica, siano invece gli argomenti su cui l’Italia debba discutere (l’elenco potrebbe essere molto più nutrito).
Di informazioni positive dovremo averne ancora, sempre migliori, visto che dal terzo/quarto trimestre dell’anno scorso siamo usciti dalla crisi, che non dipenderanno dal “decreto del fare” ma dall’andamento dell’economia internazionale, ed una crisi che ora, alla sua fine, appare come provocata deliberatamente e sfruttata in tutti i modi dalla politica di ogni parte del mondo, necessiterà di riflessioni indipendenti per comprenderne la sua portata e, soprattutto, per evitare che in Italia il benessere sia considerato un regalo della peggiore è più vergognosa classe dirigente del mondo, l’unica a trovare più vantaggioso inscenare batracomiomachie rispetto all’affrontare la realtà.
Per converso un’altra ipotesi per la quale si possa accedere alle ragioni per le quali l’Italia ha inscenato e continua ad inscenare scontri politici in austerità senza determinare un minimo di atto per reagire alla crisi economica è che non spendere durante il Natale servisse solo a garantire alle famiglie la disponibilità di più risorse economiche al momento di pagare tasse e balzelli già presenti nelle leggi o prossimi ad essere inseriti nella normativa, ma in quel caso bisognerebbe chiedersi come mai questa classe politica italiana non riesca a garantire nei creditori e nei controllori una fiducia tale da farli stare tranquilli che l’Italia potrà pagare ogni spettanza ma sia invece necessario approfittare di una fase storica che ha azzerato la nostra politica solo perché il nostro Paese, in momenti di confronto democratico reale, non è in grado di rispettare alcun impegno, e, soprattutto, non ha la faccia per informare i cittadini di tutto ciò.
Infine l’ultima ipotesi, ribadendo la positività dei dati che stanno, giorno dopo giorno, arrivando, è che frustrare l’economia, negando i dati positivi, sia funzionale a garantire una forma di controllo dello sviluppo: se tutti si convincono che siamo sopravvissuti alla crisi, tutti pretendono il prima possibile di ritornare ai livelli pre-crisi, ma se la “domanda” dei livelli precedenti deve confrontarsi con più di sei generazioni rimaste lontano dal lavoro, è normale che ci voglia pazienza. Se a questo si aggiunge il numero importante di imprenditori, padri di famiglia, che aspirano a risorgere, si potrebbe trovare con criterio una ragionevole fonte di timore in chi governa.
Insomma, siamo in ripresa, ma dobbiamo credere che tutto stia andando a rotoli, e questi tre scenari ipotizzati servono solo ad invitare ad immaginarne altri, perché altrimenti il quadro della realtà sarebbe in sé irreale.
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