Pertanto, qualsiasi condotta contraria tenuta dal professionista ne discendono responsabilità civili penali e disciplinari.
Tanto premesso, recentemente la Cassazione con sentenza n. 31674/15 depositata il 21 luglio 2015 ha accolto il ricorso di una donna che lamentava violazione dell’ art. 51 c.p.
Nel caso di specie, l’ imputata con un esposto inviato al Consiglio dell’ Ordine degli Avvocati di Perugia, accusava il legale di controparte, di avere, in una richiesta di decreto ingiuntivo indicato documenti diversi da quelli effettivamente prodotti con la palese intenzione di trarre in inganno il giudice.
In primo Grado, condannata per diffamazione oltre che al risarcimento del danno in favore della persona offesa, la stessa ricorreva in Cassazione.
In merito alla questione de quo la Suprema Corte ribadì che: “ il codice deontologico forense, prevede all’ art. 14 un dovere di verità a carico dell’ avvocato che investe le dichiarazioni rese in giudizio e relative alla esistenza o inesistenza di fatti obiettivi, che siano presupposto specifico per un provvedimento del magistrato, e di cui l’avvocato abbia diretta conoscenza, le quali devono essere vere e comunque tali da non indurre il giudice in errore. Tali previsioni fondano il diritto di ogni parte processuale a criticare, anche dinanzi agli organi della giustizia disciplinare, il comportamento del legale che non si uniformi al principio di probità e di verità sopra enunciato, trattandosi di principi posti, espressamente, a tutela di tutti i protagonisti del processo”.
Ne consegue da quanto su esposto, che la convenuta aveva il diritto di criticare il legale della controparte per l’ inosservanza di detti principi deontologici.
Si precisa continuando che: “ l’ espressione di tale giudizio non può costituire da solo una responsabilità penale dell’ imputata, trattandosi, del giudizio su un fatto che per sua natura non è obiettivo ma riflette l’ opinione del soggetto che lo esprime. In realtà l’ indagine andava focalizzata, sul dato di fatto rappresentato dalla denunciante”.
Dalla motivazione si evince che la riproduzione dei documenti diversi da quelli effettivamente prodotti sicuramente comprovavano quanto sostenuto dall’ imputata.
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