E chissà, magari in questi giorni il Legislatore sta pensando proprio a questo antico istituto giuridico come prossimo meccanismo deflattivo del contenzioso degli appalti pubblici …
D’altronde, che la tutela del sistema italiano degli appalti pubblici fosse argomento particolarmente “urticante” per il Legislatore, l’abbiamo capito già qualche anno fa. Però, dopo l’ultimo giro di vite operato dal Decreto Legge 13 maggio 2011 n. 70 – cd. “D.L. Sviluppo”, in vigore dal 14 maggio 2011 – la situazione inizia a farsi realmente preoccupante, e rischia di innescare meccanismi distorsivi del sistema processuale amministrativo speciale vigente in materia.
Tra le tante innovazioni riguardanti gli appalti pubblici, il D.L. introduce nel Codice “de Lise” il nuovo articolo 246-bis, rubricato “Responsabilità per lite temeraria”, che così sancisce: “Nei giudizi in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, il giudice, fermo quanto previsto dall’articolo 26 del codice del processo amministrativo approvato con decreto legislativo 2 luglio 2010, 104, condanna d’ufficio la parte soccombente al pagamento di una sanzione pecuniaria in misura non inferiore al doppio e non superiore al triplo del contributo unificato dovuto per il ricorso introduttivo del giudizio quando la decisione e’ fondata su ragioni manifeste od orientamenti giurisprudenziali consolidati. Al gettito delle sanzioni previste dal presente comma si applica l’articolo 15 delle norme di attuazione del codice del processo amministrativo approvato con il citato decreto legislativo n. 104 del 2010”.
Da qualche giorno, dunque, se il ricorso è ritenuto “temerario” dal Giudice, l’impresa soccombente può essere condannata a pagare, non solo le spese processuali in favore di controparte, ma anche una sanzione pecuniaria in favore dell’erario, da quantificarsi, anche d’ufficio, tra i 4000 ed i 6000 Euro.
Si aggrava ulteriormente, dunque, il già pesante carico economico da sostenere nel processo amministrativo. Il nuovo balzello, infatti, è in affollata compagnia: si parte dal contributo unificato, fissato per gli appalti in 2000 euro, peraltro oggi richiesto non solo per il ricorso introduttivo ma anche per tutte le “domande nuove” presentate nello stesso giudizio; c’è poi l’eventuale condanna alle spese della fase cautelare (art. 57 cpa), fase che costituisce l’unico momento processuale in cui l’impresa ricorrente può ottenere l’appalto stesso per cui ha agito, e non un surrogatorio risarcimento per equivalente; giunti alla sentenza, potrà essere disposta la condanna alle spese del giudizio (art. 26 comma 1), un’ulteriore “somma di denaro equitativamente determinata” a favore di controparte (art. 26 comma 2), ed infine il nuovo balzello per “lite temeraria”.
Ma di cosa stiamo parlando?
Questa sanzione ha a che fare con la responsabilità per lite temeraria prevista in generale dall’art. 96 cpc? Decisamente no.
La responsabilità per lite temeraria prevista dal codice di procedura civile si fonda su requisiti soggettivi, la mala fede o la colpa grave, ovvero sulla “consapevolezza di essere nel torto”. In altri termini, può essere condannato solo chi sa di aver abusato dell’azione giudiziaria, facendo un uso consapevolmente distorto del processo e, in ultima analisi, del proprio diritto di difesa. Completamente diversi, invece, i presupposti della nuova sanzione (“ragioni manifeste” od “orientamenti giurisprudenziali consolidati”) che sfuggono alla percezione ai ricorrenti, evidentemente non giuristi.
A dirla tutta, qui non ci troviamo di fronte ad una nuova tipologia di condanna alle spese: questa è una vera e propria sanzione, tanto che, a differenza di tutte le somme previste dall’art. 26 Cpa (nonché dagli artt. da 91 a 97 Cpc, da esso richiamati nel processo amministrativo) il nuovo balzello non spetta a controparte, bensì all’erario, come il contributo unificato. E come le sanzioni alternative alla dichiarazione di inefficacia del contratto (art. 123 Cpa), l’unica norma sanzionatoria ad oggi prevista nel processo amministrativo, guarda caso anch’essa limitata al settore degli appalti pubblici.
Quindi, siamo di fronte ad una sanzione, con finalità da un lato punitive per il ricorrente temerario, dall’altro lato risarcitorie per la giustizia amministrativa.
Ma ce n’era davvero bisogno? Assolutamente no.
E infatti, uno strumento punitivo, perfettamente adottabile anche per i casi di cui al nuovo art. 246-bis Ccp, è già previsto per tutte le materie dal già citato art. 26 comma 2 del Cpa, visto che tale norma aggancia il potere del giudice di condannare anche d’ufficio la parte soccombente al pagamento in favore dell’altra parte di una somma di denaro equitativamente determinata, proprio alla sussistenza dei medesimi presupposti della nuova sanzione per lite temeraria, e cioè quando la decisione è fondata su ragioni manifeste o orientamenti giurisprudenziali consolidati.
Peraltro, anche la funzione risarcitoria dell’amministrazione della giustizia in caso di cause manifestamente infondate è già assolta da uno strumento consolidato del processo, che consente in tali ipotesi di definire il giudizio celermente e con motivazioni molto sintetiche: la cd. sentenza breve di cui all’art. 74 Cpa, che si fonda, tra l’altro, sulla manifesta infondatezza del ricorso.
Detta così, la nuova sanzione è né più e ne meno che un clone: raddoppia gli strumenti punitivorisarcitori per cause infondate, al fine di raddoppiare i costi del processo.
A questo punto, non sfuggirà ai più la vera natura della norma, nascosta sotto le mentite spoglie di una sanzione: si tratta di un nuovo – l’ennesimo – strumento deflattivo, che mira a ridurre il contenzioso in materia di appalti pubblici.
Un obiettivo legittimo, per carità, ma perseguito con modalità profondamente errate, decisamente illegittime. Gli strumenti deflattivi del contenzioso, infatti, dovrebbero consistere in procedure stragiudiziali, alternative all’esercizio del diritto di difesa dinanzi al giudice, che il cittadino e l’impresa devono poter scegliere liberamente, in relazione ad i vantaggi, economici e temporali, che essi possono comportare rispetto al processo amministrativo. E così, infatti, era in materia di appalti pubblici, prima del 246-bis. Oggi invece, questo nuovo articolo, lungi dal dare alla società nuovi strumenti di soluzione delle controversie, alternativi e preferibili al processo, si limita a rendere meno appetibile quest’ultimo, incrementandone i costi.
Peraltro, fa specie che tale sanzione venga commisurata nel suo ammontare proprio al contributo unificato (tra il doppio ed il triplo), come a voler dire che, quanto più alte sono le tasse che pago per accedere al “sistema giustizia”, tanto più gravi saranno le conseguenze dei miei comportamenti censurabili al suo interno. E l’assunto non ci convince, posto che, una volta “dentro” il processo, i comportamenti delle parti dovrebbero essere valutati allo stesso modo, indipendentemente dalla materia trattata.
E’ evidente, dunque, che non ci troviamo di fronte ad una politica deflattiva del contenzioso: questa è un scelta politica che, semmai, potrebbe definirsi “corrosiva” del diritto di difesa in materia di appalti pubblici.
In un simile contesto, il capro espiatorio è sempre, manco a dirlo, l’avvocato. Sarà l’avvocato, infatti, a fare da “collo di bottiglia”, a consigliare di intraprendere o meno il giudizio al proprio cliente, in relazione agli orientamenti giurisprudenziali del momento; e sarà l’avvocato, in caso di sanzione, a dover spiegare al cliente le ragioni “giurisprudenziali” di essa, con il serio rischio di finire lui stesso accusato -e messo alla gogna- come unico vero responsabile.
D’altronde, si sa, il proverbio “ambasciator non porta pena” per l’avvocato non è mai valso.
E ancora, sarà l’avvocato a pensarci due volte prima di avviare ricorsi “pilota”, con argomentazioni giuridiche originali che tentino di scardinare un orientamento giurisprudenziale prevalente; con ciò contribuendo, suo malgrado, al reale rischio di una stagnazione dell’evoluzione giurisprudenziale in materia.
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