Affermare che le nomine dei componenti delle authority effettuate in questi giorni siano rispettose dell’indipendenza ed autonomia che la legge richiede in capo ai componenti, alla luce delle definizioni di autonomia e indipendenza reperibili in ogni vocabolario, risulta piuttosto arduo.
La risposta che spesso si sente, allorquando le nomine (come spessissimo accade) ricadano su politici o ex politici è che l’aver intrapreso una carriera politica non costituisce certo un “peccato”, né impedisce di accedere a determinate cariche, se la competenza dimostrata lo consente.
A parte il fatto che molte volte la “competenza” tecnica risulta tutta da dimostrare, il ragionamento proposto è totalmente fuorviante. La normativa che richiede indipendenza ed autonomia in determinati soggetti, dai componenti delle authority agli organismi di valutazione dei dipendenti pubblici agli stessi dirigenti pubblici, è evidentemente indirizzata a indurre chi deve scegliere a selezionare soggetti distanti, distantissimi dai partiti e, di conseguenza, dalla politica militante e attiva.
Andando alla radice delle parole, basta chiedersi cosa sia un partito. L’articolo 49 della Costituzione dispone: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. In poche parole, i partiti sono un’associazione di cittadini, uniti da un’ideologia comune, organizzate in una struttura articolata e generalmente gerarchica, finalizzata a stabilire una linea (indirizzo politico) per governare le istituzioni.
I partiti, dunque, sono associazioni “di parte”, nelle quali i componenti sposano (non sempre in modo fedelissimo) un’idea, perseguono una linea. I componenti di un partito, ma comunque chi si candida od ottiene cariche per il tramite dei partiti, non può dirsi indipendente ed autonomo, perché, associandosi, sceglie liberamente di aderire ad una linea che diviene vincolante. La volontà individuale viene necessariamente compressa dalla superiore forza delle decisioni associative.
E’ evidentissimo, dunque, che chi si associa in un partito ha il sacrosanto diritto di farlo, come appunto sancisce la Costituzione. Altrettanto chiaro, però, dovrebbe risultare che per determinati incarichi tale scelta risulta incompatibile.
Dovrebbe risultare molto più chiaro, forse, nell’ordinamento, che la libera scelta di associarsi in un partito vincola, poi, le possibilità di acquisire incarichi. Qualsiasi soggetto impegnato attivamente nella politica secondo dettami di partito non può che essere escluso da cariche per le quali la legge richiede autonomia ed indipendenza, per la semplice ragione che esplicando proprie libere scelte, questa persona ha aderito ad una “parte”, non può pensare liberamente, risulta condizionato. Né tre, cinque, dieci o meno che meno un anno di “assenza” da cariche elettive possono cambiare lo stato dei fatti.
Fare politica non è “peccato”. Ma, i cittadini hanno l’incomprimibile diritto di pretendere che presso autorità “indipendenti”, tra i dirigenti pubblici, nelle magistrature, operino persone non solo preparate, ma lontane, estranee dalla politica.
Il problema vero, tuttavia, è un altro: è il sistema di assegnazione degli incarichi.
L’errore grave di molte leggi consiste nell’assegnare al Parlamento, al consiglio regionale, agli organi politici degli enti locali, la competenza a “nominare” o “incaricare”, sul presupposto, quanto meno ingenuo, che consessi liberamente eletti siano in grado di selezionare le migliori competenze della società. Ma, tali consessi sono composti da partiti, che spingeranno sempre per persone appartenenti alla loro “area”, così da far rientrare incarichi e nomine in dinamiche di “scambio” ai fini del consenso e dei rapporti maggioranza-opposizione.
Le vere autonomia e indipendenza si avranno solo se e quando si avrà il coraggio e la forza di prevedere incompatibilità granitiche e assolute tra l’appartenenza politica e lo svolgimento di determinati incarichi e la necessaria selezione esclusivamente mediante procedure competitive.
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