–dimissioni, fatte salve quelle verificate per giusta causa o durante il periodo tutelato di maternità;
–risoluzioni consensuali, scartate quelle firmate successivamente all’attivazione della procedura di conciliazione preventiva presso la Dtl;
–dimissioni conseguenti al trasferimento del lavoratore ad una diversa sede della medesima azienda, distante oltre 50 km dal rispettivo luogo di residenza e/o mediamente raggiungibile in 80 minuti o più utilizzando i mezzi pubblici.
Le restanti casistiche che automaticamente escludono il versamento sono:
-esaurimento del rapporto lavorativo a causa del decesso del dipendente;
–esodi dei lavoratori “anziani” avvenuti seguendo le indicazioni della riforma (art. 4, legge 92/2012 e comma 54, lettera b) dell’art. 34 della legge 221/2012), riferibili anche ai dirigenti;
-licenziamenti dei lavoratori domestici con contratto a tempo indeterminato.
Per un periodo transitorio, e cioè fino al 31 dicembre 2015, l’esclusione dal ticket è valida anche nei casi di:
-licenziamenti realizzati a seguito di cambi d’appalto;
-cessazioni di rapporti lavorativi a tempo indeterminato, nel settore edilizio, in conseguenza del completamento delle attività e della chiusura del cantiere.
L’esonero viene poi posticipato al 31 dicembre 2016 in riferimento ai licenziamenti collettivi (articolo 5, comma 4, della legge 223/1991) per i quali, sino alla data in questione, il contributo d’ingresso alla procedura di mobilità risulta dovuto. Nonostante i chiarimenti, lo scenario contributivo che si prospetta per i datori di lavoro non è esente da criticità. Questo soprattutto in virtù del fatto che il versamento contributivo si avvia anche in caso di causali non propriamente originate da decisioni di livello imprenditoriale: basti pensare alla cessazioni dei rapporti di apprendistato, divergenti rispetto alle dimissioni o al recesso del lavoratore, che hanno avuto luogo a margine del periodo di formazione (articolo 2, comma 1, lettera m) del Dlgs 167/2011) grazie alla mancata volontà di qualificare l’apprendista da parte del datore. Rappresentano ancora casi anomali i licenziamenti realizzati per giusta causa, successivi ad una rottura del rapporto lavorativo o le dimissioni fatte durante il periodo tutelato di maternità. I punti di criticità toccano anche le modalità, elencate dall’Inps, per misurare il contributo. Infatti, nonostante l’Istituto determini l’anzianità aziendale del lavoratore in maniera direttamente proporzionale al numero di mesi di durata del rapporto di lavoro, per frazioni di mese superiori a 15 giorni, la normativa, di contro, annuncia il versamento del 41% del massimale mensile di Aspi “per ogni dodici mesi di anzianità”. Interpretando la disposizione in maniera letterale dunque il contributo non sarebbe dovuto, ad esempio, qualora sussista un’anzianità pari a 11 mesi. Tasto dolente anche per il computo contributivo riguardante le recessioni di contratti part-time per i quali l’Inps, non implicando alcuna distinzione con i lavoratori a tempo pieno, fa valere il solito criterio di conteggio proporzionale all’orario di lavoro. Anche per i contratti di lavoro a chiamata il calcolo andrebbe meglio specificato. Nei confronti di quest’ultima tipologia contrattuale, infatti, l’Istituto richiede che il versamento del ticket sia escluso con riferimento alle interruzioni dei rapporti a tempo indeterminato stipulati prima del 18 luglio 2012, ma incompatibili con le direttive della legge 92/2012, e destinati ad interrompersi entro il 18 luglio 2013. In tali casi si evidenzia pertanto l’imposizione per legge della cessazione, non subentrando affatto l’iniziativa diretta del datore di lavoro.
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