La materia degli appalti pubblici è stata più che mai in questo anno appena concluso sottoposta a ripetuti “tsunami normativi” con interventi spesso frettolosi, contraddittori e scarsamente coordinati con il quadro normativo vigente. Un approccio che riflette con estrema trasparenza quanto desolante meccanicità la situazione emergenziale di questo difficilissimo momento storico dell’economia italiana e globale. Ma preoccupa anche il progressivo scadimento qualitativo della normazione in questo delicato settore, che muove una massa finanziaria intorno di diversi punti del PIL ed è considerata una leva strategica di politica economica, specie in questo periodo.
Non giovano certamente al sistema-Paese e all’attuale drammatica situazione della nostra economia:
• un quadro normativo in rivoluzione e complicazione permanente e costanti oscillazioni giurisprudenziali che sono la negazione della certezza delle regole per gli operatori;
• una moltiplicazione di adempimenti con l’introduzione di screening diffusi (sulla tracciabilità, sulla regolarità contributiva, ecc.) che partono dal presupposto della irregolarità delle imprese (in dubio, contra reo; mentre invano, vedi da ultimo legge stabilità, si ribadisce la sufficienza delle autocertificazioni: è dal 1968 che il legislatore afferma questo principio, per poi contraddirlo quotidianamente);
• un conseguente aumento del costo degli apparati per far fronte a tali adempimenti, la cui efficacia è perlomeno dubbia;
• un continuo aumento – comunque – dei costi economici delle procedure, non solo per le crescenti ricordate complessità del quadro normativo, ma anche per le sempre maggiori spese amministrative dell’appalto.
La recente “manovra Monti” (D.L. 201/2011 conv. L. 214/2011) ha avuto anzitutto il pregio di sopprimere la tanto esecrata (da parte delle stazioni appaltanti) disposizione dell’art. 81, c.3bis del Codice, introdotta dal DL 70/2011 circa l’obbligo di scorporare il costo del lavoro dal confronto concorrenziale, norma alla cui soppressione peraltro anche il precedente Governo stava mettendo mano prima di cadere.
L’ampio dibattito ed i numerosi contributi critici pubblicati sulle pagine di Appalti&Contratti (sia on line che mensile), ritengo possano aver contribuito a fornire utili elementi di valutazione al legislatore circa l’oggettiva difficoltà di pratica applicazione della norma da parte delle amministrazioni aggiudicatrici.
E’ dunque da salutare con favore il ritorno ai principi comunitari – che non avrebbero comunque tollerato la soppressione delle giustificazioni relative al costo del personale previste nelle direttive – mentre è ampiamente noto come la disposizione dell’art. 86, c.3bis del Codice possa già costituire un valido presidio circa la tutela del lavoro nel momento in cui tutte le stazioni appaltanti sono tenute a valutare che il valore economico a base di gara “sia adeguato e sufficiente rispetto al costo del lavoro e al costo relativo alla sicurezza, il quale deve essere specificamente indicato e risultare congruo rispetto all’entità e alle caratteristiche dei lavori, dei servizi o delle forniture”.
Ancora la manovra Monti si segnala per aver elevato al rango di “principi” generali dei contratti pubblici le disposizioni introdotte dalla L. 180/2011 (norme a favore delle micro-piccole-medie imprese): all’art. 2 del Codice si introducono i nuovi commi 1bis e 1ter, a tenore dei quali “Nel rispetto della disciplina comunitaria in materia di appalti pubblici, al fine di favorire l’accesso delle piccole e medie imprese, le stazioni appaltanti devono, ove possibile ed economicamente conveniente, suddividere gli appalti in lotti funzionali” e “La realizzazione delle grandi infrastrutture, ivi comprese quelle disciplinate dalla parte II, titolo III, capo IV, nonché delle connesse opere integrative o compensative, deve garantire modalità di coinvolgimento delle piccole e medie imprese”.
Tutto sta nel capire come debbano essere interpretati i presupposti del frazionamento in lotti, costituiti rispettivamente dalla “possibilità tecnica” e dalla “convenienza economica”. Si pensi solo all’ipotesi in cui l’accorpamento delle diverse prestazioni in un contratto unitario sia stato deliberato dall’amministrazione, per il precedente appalto, proprio in relazione alle “economie di scala” conseguibili e alla semplificazione e razionalizzazione della gestione dei rapporti contrattuali con un unico interlocutore (tipico è il caso del global service). L’auspicato frazionamento non pare quindi facilmente attuabile in concreto per tutti gli appalti. In ogni caso, è quasi pleonastico osservare, il frazionamento non potrà comunque essere elusivo delle procedure ad evidenza pubblica, dovendosi comunque fare applicazione dei meccanismi di computo del valore complessivo dell’appalto suddiviso in lotti come disciplinati dall’art. 29 del Codice.
Anche la legge di stabilità 2012 (L. 183/2011) si segnala per disposizioni che presentano un impatto significativo nella gestione delle procedure contrattuali, con particolare riguardo alla delicata fase di verifica dei requisiti: l’art. 15 introduce una serie di disposizioni dirette a consentire una completa “decertificazione” nei rapporti fra P.A. e privati, in specie l’acquisizione diretta dei dati presso le amministrazioni certificanti da parte delle amministrazioni procedenti e, in alternativa, la produzione da parte degli interessati solo di dichiarazioni sostitutive di certificazione o dell’atto di notorietà. Le nuove previsioni operano in realtà nel solco già a suo tempo tracciato dal DPR 445/2000, in forza del quale le pp.aa. non possono richiedere atti o certificati contenenti informazioni già in possesso della P.A.
Tra le novità di maggiore rilievo si segnalano:
– le certificazioni rilasciate dalle P.A. in ordine a stati, qualità personali e fatti sono valide e utilizzabili solo nei rapporti tra privati; nei rapporti con gli organi della Pubblica amministrazione e i gestori di pubblici servizi, i certificati sono sempre sostituiti dalle dichiarazioni sostitutive di certificazione o dall’atto di notorietà. Conseguentemente, a far data dal 10 gennaio 2012, le amministrazioni e i gestori non possono più accettarli né richiederli, tanto più in quanto tali comportamenti integrano, per espressa previsione, violazione dei doveri d’ufficio ai sensi della nuova formulazione dell’articolo 74, comma 2, lett. a), del DPR 445/200;
– le amministrazioni certificanti sono tenute ad individuare un ufficio responsabile per tutte le attività volte a gestire, garantire e verificare la trasmissione dei dati o l’accesso diretto agli stessi da parte delle amministrazioni procedenti; tale adempimento risulta indispensabile, anche per consentire “idonei controlli, anche a campione”, delle dichiarazioni sostitutive, a norma dell’articolo 71 del decreto del Presidente della Repubblica n. 445 del 2000. L’ufficio in questione è altresì responsabile della predisposizione delle convenzioni per l’accesso ai dati di cui all’articolo 58 del Codice dell’amministrazione digitale, approvato con decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82;
– la mancata risposta alle richieste di controllo entro trenta giorni costituisce violazione dei doveri d’ufficio ed è presa in considerazione ai fini della misurazione e della valutazione della performance individuale dei responsabili dell’omissione; misura questa da salutare con favore ancorchè costituisca un tardivo rimedio ad una criticità oramai strutturale nella fase di verifica dei requisiti generali, specie laddove non operi un meccanismo di silenzio-assenso.
Ancora in tema di verifica dei requisiti è da segnalare la disposizione introdotta dalla legge 180/2011, laddove all’art. 13, comma 4, stabilisce che “La pubblica amministrazione e le autorità competenti, nel caso di micro, piccole e medie imprese, chiedono solo all’impresa aggiudicataria la documentazione probatoria dei requisiti di idoneità previsti dal codice di cui al decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163… ”.
Come abbiamo già dato conto nel precedente editoriale, quest’ultima disposizione pare quella più densa di implicazioni interpretative ed applicative. La norma sembra infatti introdurre una modifica al meccanismo della c.d. verifica a campione, come delineato del comma 1 dell’art. 48 del Codice. La disposizione parrebbe dunque introdurre un “doppio binario” definito in relazione alla tipologia dei soggetti concorrenti: se alla gara partecipano micro-piccole-medie imprese a queste non è possibile richiedere la documentazione probatoria dei requisiti speciali, con la conseguenza che risulterebbe priva di scopo il computo di queste ai fini della determinazione del campione (10% delle offerte presentate arrotondato all’unità superiore); cosa diversa se il concorrente è un “grande” impresa, rispetto alla quale la deroga non opera e quindi andrebbe inclusa nel calcolo del campione.
In generale, sulla dialettica “semplificazione per le imprese” / “moltiplicazione adempimenti per le pp.aa.”, va condivisa l’opinione di chi ritiene inaccettabile che si riversi sul territorio –senza nessun reale trasferimento di risorse umane o tecnologiche – la pretesa che attraverso l’attività contrattuale della p.a. si presidino interessi pubblici certamente meritevoli di tutela, ma che andrebbero difesi con altre forme e soprattutto da parte delle amministrazioni competenti e non certamente dai comuni, dalle realtà locali ecc..
Attraverso le amministrazioni locali – tra l’altro sulla base di una presunzione inaccettabile di diffusa irregolarità delle imprese – il legislatore infatti pretende di effettuare uno ‘screening’ dell’intera situazione amministrativa degli appaltatori (e spesso dei meri partecipanti alle gare) in ogni fase della procedura di appalto, dall’aggiudicazione, al contratto, ad ogni pagamento delle prestazioni contrattuali.
E senza distinguere tra contratti rilevanti e contratti di modesto importo: sono soprattutto le piccole commesse, i piccoli cantieri, quelli che quotidianamente danno lavoro alle imprese italiane, ad essere in grande sofferenza.
Forse si trascura che l’utilizzo pieno della telematica nelle procedure d’appalto (con le conseguenti semplificazioni e riduzioni di costi amministrativi) sconta ancora l’handicap – dovuto a motivazioni incongrue – della pretesa dell’utilizzo della firma digitale ‘forte’, in un quadro europeo che afferma la piena validità delle firme elettroniche anche di altro genere. Forse si trascura che tuttora – nell’epoca di internet – le amministrazioni debbono pagare per ogni appalto oltre 20 euro a riga (!) una pubblicazione obbligatoria sulla Gazzetta Ufficiale della cui abolizione si discute da nove anni e che determina ulteriori dilazioni dei tempi di intervento della p.a..
Riduzione degli adempimenti, semplificazione, utilizzo della telematica sono gli assi di un intervento che si presenta ormai irrinunciabile. Se si vuole realmente perseguire l’obiettivo di sostenere l’economia del Paese in questa difficile congiuntura, oltre che qualificare e velocizzare la spesa pubblica, misure di tal genere dovrebbero essere quelle da porre rapidamente in campo.
Con tutto l’ottimismo possibile vorrei augurare a tutti i lettori un felice, proficuo e gratificante 2012, formulando pure l’auspicio che il nostro legislatore possa riprendere la “retta via” nella materia che occupa tanti operatori, con assiduo impegno e gravose responsabilità.
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