Anziani e Alzheimer: cosa manca alla nostra società. La parola al Prof. Marco Trabucchi

Letizia Pieri 25/10/16
Il 16 e 17 novembre si terrà a Bologna il Forum della Non Autosufficienza, l’evento di riferimento nazionale per professionisti ed operatori dei servizi alla persona, che metterà a confronto la realtà politica e sociale della disabilità e della anzianità con le immagini che il mondo della comunicazione ci trasmette incessantemente.

Ospite ormai abituale, e voce di rilievo anche di questa VIII edizione, il Prof. Marco Trabucchi, Presidente dell’Associazione Italiana di Psicogeriatria e Direttore Editoriale della rivista scientifica “Psicogeriatria” che interverrà con una Lectio Magistralis su Storia ed evoluzione della malattia di Alzheimer.

Ne abbiamo parlato insieme.

Nel suo libro L’Anziano Attivo lei sostiene che “Invecchiare non è una malattia”: l’uomo contemporaneo vive sempre più a lungo, non soltanto chi è sano ma anche chi ha forme di fragilità in quanto è sempre più possibile ridurre l’impatto della malattia sulla durata della vita. Di fronte a questo allungamento anagrafico dell’uomo contemporaneo quali e come sono le risposte dell’organizzazione sociale?

I cambiamenti in tal senso sono avvenuti con tale velocità da impedire un’evoluzione graduale per cui l’organizzazione sociale è entrata in crisi. Questa crisi, quindi, si è manifestata concretamente nelle risposte che l’organizzazione elabora di fronte all’allungamento costante della vita.

I punti ‘deboli’ toccano principalmente 4 ambiti.

– Nella società non c’è uno status per la persona anziana. Si tende, infatti, a non trovare spazio per questa categoria sociale che in questo modo viene relegata ad un ruolo marginale, passivo. Gli anziani non sono ritenuti in grado di poter avere autonomia, sia decisionale che comportamentale, e quindi sono visti come incapaci di apportare un proprio contributo attivo all’organizzazione sociale, niente di più sbagliato.

– La dimensione del lavoro è incerta, anche dal punto di vista della gestione occupazione, infatti, non si hanno le idee chiare. Da un lato vi è la necessità per determinate categorie (precoci, lavori usuranti, disabili) di poter andare in pensione prima, dall’altro invece si deve far fronte all’allungamento della vita e alle ripercussioni che inevitabilmente questo implica anche a livello lavorativo. A ciò si aggiunge il problema del cosiddetto turn over e dell’esigenza di far spazio alle nuove generazioni nel mercato del lavoro senza tuttavia penalizzare i lavoratori più anziani. Capire che ruolo questi possono avere nella gestione e organizzazione del lavoro è un fattore molto importante per quanto riguarda le risposte che deve mettere in atto la società di fronte all’allungamento anagrafico generale della popolazione.

– L’ambito assistenziale è carente, ci sono sempre più vecchi poveri che vivono al di sotto della soglia di povertà. Le condizioni, poi, si complicano ulteriormente per chi non è autosufficiente. In tal senso risposte concrete e uniformi da parte dell’organizzazione sociale ancora mancano.

– La dimensione dell’assistenza sanitaria presenta non pochi problemi a fronte dell’allungamento progressivo della durata della vita dell’uomo contemporaneo che, invece, richiede non soltanto nuovi modelli assistenziali, ma anche nuove risorse. Al momento, anche in questo ambito, non si è trovata una risposta unitaria.

Alcuni parlano di una lenta ma progressiva riduzione dello stigma sociale verso l’Alzheimer, uno dei grandi tabù della nostra epoca di cui pare comunque crescere il livello di sensibilizzazione e conoscenza da parte della società civile e politica. Crede sia realmente così? Di contro, lo stigma sociale verso l’anziano, che ne vorrebbe ridurre l’autonomia e il ruolo sociale, pare restare immutato, perché?

Ritengo che lo stigma sociale verso l’Alzheimer sia ancora troppo forte per essere una società civile. Sì, se ne parla di più ma è ancora percepito come un macigno, una vergogna che pesa sulla vita delle persone malate e delle rispettive famiglie e che impedisce loro, allontanando la diagnosi, di attuare provvedimenti e comportamenti adeguati alla gestione della demenza.

Per quanto riguarda, invece, gli anziani non parlerei tanto di stigma, ma più che altro di competizione. Questo perché la società civile tende a guardali con diffidenza, a volte paura, a volte vergogna. Quello che ne deriva è una marginalizzazione ingiusta e assolutamente sfavorevole per l’intera organizzazione sociale.

Altro aspetto delicato dell’organizzazione sociale riguarda i servizi per gli anziani, a che punto siamo in Italia?

Prendiamo l’esempio delle case di riposo: in alcune Regioni (soprattutto al Nord) funzionano molto bene, costituiscono esempi virtuosi di cura e assistenza agli anziani; in altre tuttavia lo scenario è esattamente all’opposto pur in presenza di uguali finanziamenti.

Si tratta, quindi, di un risultato che deriva da un atteggiamento culturale di disinteresse. In Italia il gap che esiste nell’organizzazione e predisposizione dei servizi alla persona anziana scaturisce in gran parte dalla difficoltà, ancora molto diffusa, di capire che l’anziano deve essere posto al centro delle cure e dell’attività assistenziale che ne ruota intorno, sia a livello di risorse economiche ma anche e soprattutto umane.

Secondo i dati del Rapporto Mondiale Alzheimer 2015, nel 2050 le persone affette da demenza, a livello globale, raggiungeranno i 131,5 milioni. Cosa pensa di questi dati che delineano uno scenario così allarmante?

Non credo nelle profezie a lunghissimo termine. Oggi l’incidenza della malattia è diminuita, mi auguro che entro il 2050 si possa trovare un farmaco, magari non risolutivo, ma comunque in grado di prevenire la demenza o migliorarne la qualità della vita. Dati così allarmanti servono solo ad enfatizzare l’attenzione sulla malattia, ma umanamente ritengo siano inaccettabili.

 

Letizia Pieri

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