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A confermare l’incompatibilità delle cariche sono due recenti sentenze depositate il 24 settembre 2015 dal TAR Lazio, terza sezione, N. 11391/2015 e N.11392/2015, che hanno ritenuto infondati i ricorsi presentati dal Consiglio nazionale forense e da 59 Consigli degli Ordini forensi.
Oggetto di impugnativa sono state la delibera n. 1452014 dell’ANAC recante “Parere dell’Autorità sull’applicazione della L. 1902012 e dei decreti delegati agli Ordini e Collegi professionali” e la delibera n. 1442014 “Obblighi di pubblicazione concernenti gli organi di indirizzo politico nelle pubbliche amministrazioni”.
Con le due citate delibere l’Autorità nazionale anticorruzione ha ritenuto immediatamente applicabili agli Ordini professionali le disposizioni della legge anti-corruzione n. 190/2012 e del decreto attuativo n. 33/2013 che obbliga ordini e collegi professionali ad adeguarsi alle norme sulla trasparenza e sulla prevenzione della corruzione.
Per i giudici, in entrambi i casi, il “ricorso è infondato e va respinto”.
Gli ordini professionali, come sostenuto da Anac, sono “enti pubblici non economici” e in quanto tali sottoposti a tutti gli obblighi di legge.
Ogni ordine dovrà:
– predisporre un piano Triennale anticorruzione,
– i suoi vertici dovranno attenersi ai vincoli stabiliti dal decreto sulla inconferibilità e incompatibilità degli incarichi (no doppie poltrone o condannati per reati contro la Pubblica Amministrazione),
– rendere pubbliche le informazioni su redditi, curricula e incarichi della sua dirigenza nonché lo stato patrimoniale degli ordini e la loro gestione.
Per i giudici del Tar Lazio, “la fonte degli obblighi previsti dalla normativa e la soggezione alle sanzioni in caso di violazione di detti obblighi non è -né potrebbe essere- costituita dagli atti dell’ANAC, comprese le deliberazioni impugnate: ma queste ultime costituiscono i prodromi all’eventuale applicazione di sanzioni agli enti ivi contemplati che non abbiano ottemperato alle prescrizioni di cui all’art. 47 d.lgs. n. 332013 così che la eventuale declaratoria giurisdizionale dell’illegittima ricomprensione degli Ordini nel novero dei soggetti obbligati comporterebbe la sottrazione al preannunziato esercizio del potere sanzionatorio”.
Piuttosto, tale fonte si rinviene nell’art. 24 della L. 31 dicembre 2012 n. 247 (Nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense) il quale dispone espressamente “Il CNF e gli ordini circondariali sono enti pubblici non economici a carattere associativo istituiti per garantire il rispetto dei principi previsti dalla presente legge e delle regole deontologiche, nonché con finalità di tutela della utenza e degli interessi pubblici connessi all’esercizio della professione e al corretto svolgimento della funzione giurisdizionale. Essi sono dotati di autonomia patrimoniale e finanziaria, sono finanziati esclusivamente con i contributi degli iscritti, determinano la propria organizzazione con appositi regolamenti, nel rispetto delle disposizioni di legge, e sono soggetti esclusivamente alla vigilanza del Ministro della giustizia”.
Secondo il Tar, alla luce di questa univoca definizione, posta dal diritto positivo, “risulta pienamente soddisfatto il principio, affermato dall’art. 4 della legge n. 70 del 1975 ed ancora presente nel nostro ordinamento per il quale “nessun nuovo ente pubblico può essere istituito o riconosciuto se non per legge”: da cui deriva che la qualità di ente pubblico deve essere affermata espressamente da una disposizione di legge, o, quantomeno, deve derivare da un chiaro quadro normativo di riferimento”.
Pertanto, la definizione positiva di enti pubblici non economici che il citato art. 24 della legge di riforma forense riserva al Consiglio Nazionale Forense e agli Ordini circondariali è stata ritenutaa di per sé sufficiente al rigetto delle censure in esame.
Osservano ancora il giudici che “un diretto ed espresso riferimento alla natura pubblica degli odierni ricorrenti è invece operato proprio dalla legge di riforma dell’ordinamento forense n. 247 del 2012, coeva alla legge delega n. 190 in materia di contrasto alla corruzione”.
Anche per queste ragioni non è ipotizzabile che l’art. 2 comma II bis del D.L. n. 1012013 abbia potuto avere la funzione di sottrarre al novero degli enti pubblici non economici le organizzazioni ordinistiche. Ciò in quanto “tale ipotizzata sottrazione si rivelerebbe di difficile comprensione, ad appena un anno dalla entrata in vigore sia della riforma forense (che in quel novero di enti ne ha cristallizzato la presenza con l’art. 24) che della legge di contrasto alla corruzione (che si riferisce indistintamente a tutti gli enti pubblici non economici)”.
Si evidenzia, inoltre, che, per il legislatore della riforma, neppure la natura associativa degli enti in questione, espressamente menzionata nell’art. 24, ne ha impedito l’ascrizione al novero degli enti pubblici non economici.
Neppure l’esclusivo finanziamento mediante i contributi degli iscritti (altro argomento cui i ricorrenti annettono valenza escludente dal novero degli enti pubblici assoggettati alla normativa contro la corruzione) ha fatto desistere il legislatore dal qualificare espressamente le organizzazioni ordinistiche quali enti pubblici non economici.
La qualificazione pubblicistica bene si accorda con la natura tributaria delle prestazioni patrimoniali in questione, espressamente affermata dalla Corte regolatrice, per la quale il contributo annuale previsto dall’art. 14 d.lg.lgt. 23 novembre 1944 n. 382 a carico degli avvocati ed a favore del Consiglio nazionale forense va considerato un tributo, sia perché, riferendosi anche ad esso, il comma 2 dell’art. 7 del medesimo d.lg.lgt. parla di “tassa annuale”, sia per il suo carattere di doverosità, sia, infine, perché la prestazione in questione è collegata alla necessità di fornire la provvista dei mezzi finanziari necessari all’ente delegato dall’ordinamento per il controllo dell’albo professionale.
Le medesime caratteristiche riveste il contributo annuale dovuto all’Ordine circondariale dagli iscritti, oggi previsto dall’art. 29 della legge n. 247 del 2012, il cui mancato pagamento comporta, per il debitore inadempiente, la sospensione non disciplinare dell’iscrizione all’albo sino all’assolvimento dell’obbligo.
Come ha affermato Cons. Stato, 28 novembre 2012 n. 6014 “ai fini della ricomprensione nel conto economico di cui alla citata normativa, è irrilevante che un ente si sostenti con la sola contribuzione di una data categoria di soggetti oppure attinga alla fiscalità generale”.
Il fatto che determinati enti siano finanziati esclusivamente da prestazioni patrimoniali imposte agli iscritti non comporta necessariamente che tali risorse non abbiano finalità pubbliche. E da tali finalità deriva l’interesse generale alla conoscenza del modo in cui dette risorse vengono impiegate e dei dati relativi ai soggetti che sono chiamati ad impegnarle.
Il Tar ha ritenuto infondata la censura per cui la nomina del responsabile, per gli enti in questione, potrebbe mancare ove non siano presenti dipendenti con qualifica dirigenziale, dato che tale figura non potrebbe essere reperita all’esterno. Occorre ritenere che solo ove tali figure dirigenziali vi siano, si dovrà nominare un dirigente; ma qualora esse non siano previste dalla pianta organica (o comunque non siano presenti), si dovrà dare preferenza all’applicazione più lata della norma, e dovrà essere nominato un soggetto non dotato di qualifica dirigenziale.
Inoltre, qualora la redazione del piano non sia possibile a causa della assenza di idonee professionalità all’interno dell’ente, si potrà utilmente fare ricorso al generale istituto dell’accordo tra pubbliche amministrazioni, disciplinato dall’art. 15 della legge n. 241 del 1990: norma, quest’ultima, che soccorre in via generale qualora sia necessario o opportuno che determinate pubbliche amministrazioni svolgano in comune determinate attività o funzioni.
Né sussiste la dedotta contraddizione tra la delibera n. 144 e la n. 145, posto che la prima non si limita a indicare, quali obbligati alla pubblicazione, i soli organi di indirizzo menzionati nel suo allegato, che, anzi, espressamente afferma avere natura solo esemplificativa. Anzi, tale provvedimento precisa che gli organi interessati sono quelli ricordati dall’art. 22 comma III del d. lgs. n. 33 del 2013 e dall’art. 1 comma II lettera f) del d. lgs. n. 39 del 2013, ossia dal sistema di decreti delegati scaturito dalla legge n.190 del 2012, e dunque: “le persone che partecipano, in via elettiva o di nomina, a organi di indirizzo politico delle amministrazioni statali, regionali e locali, quali Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro, Vice Ministro, sottosegretario di Stato e commissario straordinario del Governo di cui all’articolo 11 della legge 23 agosto 1988, n. 400, parlamentare, Presidente della giunta o Sindaco, assessore o consigliere nelle regioni, nelle province, nei comuni e nelle forme associative tra enti locali, oppure a organi di indirizzo di enti pubblici, o di enti di diritto privato in controllo pubblico, nazionali, regionali e locali”, da intendersi come nel precedente paragrafo.
Gli obblighi di trasparenza di cui al d. lgs. n. 33 del 2013 si applicano anche agli organi di indirizzo di tali Enti.
E, all’evidenza, tali obblighi sarebbero del tutto vuoti di contenuto precettivo, ove si ritenesse che lo strumento programmatorio delle relative attività non debba essere adottato. In secondo luogo, perché gli Ordini devono adottare il Piano di prevenzione della corruzione.
Il Piano triennale per la trasparenza e l’integrità, per disposizione dell’art. 10 citato, definisce le misure, i modi e le iniziative volti all’attuazione degli obblighi di pubblicazione previsti dalla normativa vigente, ivi comprese le misure organizzative volte ad assicurare la regolarità e la tempestività dei flussi informativi di cui all’articolo 43, comma 3.
Dunque, anche la corporazione degli avvocati dovrà sottostare agli obblighi di trasparenza, anticorruzione e incompatibilità degli incarichi stabiliti dalla legge.
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