Con la sentenza n. 3049 del 4 giugno 2013 la III sez. il Consiglio di Stato, nel riformare quella del Tar Lazio sez. 1 ter n. 33653 del 19 novembre 2010, in maniera articolata ed esaustiva è voluto intervenire sulla responsabilità civile, sul risarcimento per danno patrimoniale e non e su quello esistenziale, tracciando una linea di demarcazione chiara tra chiesto e dovuto.
Nel caso specifico il contenzioso, che ha visto come parti il Ministero dell’Interno ed un agente di polizia, non riammesso in servizio a seguito dell’accoglimento di provvedimenti cautelari della Giustizia Amministrativa, ha posto diversi quesiti in tema di risarcimento ed equa riparazione a causa di perdita di chance, danno patrimoniale, biologico e morale, ed in cui il Giudice dell’Appello è dovuto intervenire concretizzando così, attraverso la sentenza anzidetta, una sintesi di tutti i principi alla cui base si pongono una serie, ormai omologata, di domande risarcitorie per danno patito.
Partendo dal fatto acclarato che viene riconosciuto nella sentenza de quo, a titolo di colpa, una condotta dell’Amministrazione disattenta “ alle regole del buon governo degli interessi in gioco secondo le regole della corretta imparzialità e buona fede”, regole peraltro dettate in forma generale e diffusa dall’art. 97 della Carta Costituzionale, e che il disattendere l’obbligatorietà di un adempimento d’ufficio dell’esecutività amministrativa, anche in assenza di una richiesta esplicita dell’interessato, in forza di sentenze della G.A., ai sensi dell’art. 1227 del codice civile, impone un risarcimento del danno prodotto dall’atto omissivo, il Consiglio di Stato deduce una seria di parametri di riconoscimento e valutazione degli strumenti risarcitori.
La prima e la più importante di queste valutazione consiste nel rimarcare una linea di principio dell’Alto Consesso secondo cui la quantificazione per equivalente del danno, in caso di omessa o ritardata assunzione, ha come presupposto non un’astratta ipotesi di mancata erogazione degli elementi retributivi e contributivi ma una certa e documentabile serie di pregiudizi di natura patrimoniale e non, direttamente riconducibili alla condotta omissiva o ritardataria del datore di lavoro, qualificata come illecita anche dalla Suprema Corte a più riprese a sezioni unite con n. 62282 del 14.12.2007 e n. 1324 del 21.12.2000.
Ad esclusione e precisazione, di seguito e logicamente, la Sezione, richiamando analoga giurisprudenza amministrativa, nel caso di specie ha valutato che il ricorrente, non avendo dovuto impegnare le proprie energie in assenza di costanza di lavoro, nell’esclusivo interesse della Amministrazione, ma ha potuto curare interessi di altra specie, sia sul piano lavorativo che della propria elevazione professionale e culturale, anche per poter acceder ad altro tipo d’impiego, in applicazione del combinato disposto degli artt. 2056 c 1° e 2° comma e 1226 del c.c. ha sofferto un danno pari solo al 50 % delle retribuzioni previste per la qualifica, non quella in cui si trovava al momento del provvedimento amministrativo, bensì quella che avrebbe avuta conferita se non fosse intervenuto il provvedimento impugnato, sanando indirettamente la così detta perdita da chanche, diversamente indicata e chiesta dal ricorrente.
Definitivamente e conseguenzialmente la decisione è stata estesa anche all’obbligo per l’Amministrazione di regolarizzare la posizione contributiva e previdenziale del richiedente, oltre la rivalutazione monetaria e gli interessi legali sulle somme dovute ed indicate al 50% delle retribuzioni della paga ordinaria ed al rateo di 13 mensilità per la medesima percentuale.
Diversamente, ribadendo un principio di effettività della prestazione lavorativa, il Consiglio di Stato ha stabilito, in detta occasione, che non spetta il riconoscimento di somme per festività, ferie non godute ed indennità varie, in quanto le stesse presuppongono una costanza di attività di servizio e che per tanto non è possibile, un riconoscimento e una conseguente quantificazione del danno su una fictio juris.
Infine, nel respingere la domanda volta al riconoscimento di una perdita di chanche il Consiglio di Stato afferma, ancora una volta, che la perdita è strettamente collegata all’offerta di elementi probatori significativi della supposta realizzazione di quello che era alla base delle aspirazioni interrotte, non essendo sufficiente il calcolo probabilistico che le stesse si possano verificare.
Sullo stesso piano dell’oggettività ed effettività dell’allegata attività probatoria il Supremo Consesso ha valutato il danno biologico, di cui il ricorrente ha chiesto il riconoscimento, decidendo che lo stesso trova riconoscimento laddove si riscontri una straordinaria sequela di eventi che devono incidere negativamente e significativamente nell’aspettative di vita dell’individuo e che superino la soglia di normale tollerabilità nelle persone.
Insomma si deve riconoscere, a questa sentenza, la peculiarità di avere sintetizzato e reso, sul piano dei principi giuridici e giurisprudenziali in materia di danno e risarcimento, un quadro generale di orientamento la cui efficacia sarà determinante in futuro per tutti, sia ricorrenti che appellanti della G.A., avendo assunto essa quella connotazione di sentenza pilota ben più nota come figura giuridica presso la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
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