Alzheimer: un viaggio per comprendere la malattia. Intervista a Michele Farina

Letizia Pieri 20/10/16
Il 16 e 17 novembre si terrà a Bologna il Forum della Non Autosufficienza, l’evento di riferimento nazionale per professionisti ed operatori dei servizi alla persona, che metterà a confronto la realtà politica e sociale della disabilità e della anzianità con le immagini che il mondo della comunicazione incessantemente ci trasmette.

Ospite di rilievo della seconda giornata di questa VIII edizione il giornalista del Corriere della Sera, Michele Farina, che parlerà del suo libro “Quando andiamo a casa. Mia madre e il mio viaggio per comprendere l’Alzheimer. Un ricordo alla volta.” 

A 10 anni di distanza dall’esperienza vissuta accanto alla madre, Farina ha deciso di ripercorrere la propria storia in quella dei volti di altri malati. Il libro-inchiesta che ne è nato rappresenta uno spaccato unico nel suo genere che descrive l’Italia dell’Alzheimer in maniera logica ma anche emotiva, attraverso le vicende di pazienti, famiglie, operatori, ricercatori, strutture ed associazioni. Ne abbiamo parlato con lui in anteprima.

A quasi due anni di distanza dalla pubblicazione del libro, può dire di aver compreso l’Alzheimer? Che cosa le ha lasciato questa esperienza?

Sono tante le risposte che posso dire di aver trovato, l’Alzheimer però è una malattia che ha tante facce, si sposta, sfugge. La neurodegenerazione è una sorta di canovaccio da interpretare in maniera diversa di volta in volta.

La chiave del libro risiede nella parola viaggio perché è proprio attraverso il viaggio che ho scoperto che la richiesta di “andare a casa”, da cui viene il titolo, è una condizione comune a tante altre persone affette da demenza. E’ proprio il viaggio che mi ha permesso di trovare le risposte che, forse anche inconsciamente, cercavo. Ho capito che la persona affetta da Alzheimer, anche se non è più quella che si conosceva, continua ad essere una persona che è bello continuare a riscoprire.

Mentre ai tempi della malattia di mia madre vedevo la sua condizione come una fine, oggi credo sia possibile continuare a coltivare ed approfondire la conoscenza delle persone affette da Alzheimer perché anche se non ricordano più chi sono o chi sei sono in grado di offrirti un altro tipo di comunicazione, meno verbale e più emotiva, fatta di piccoli gesti e attenzioni fugaci che, se anche rimangono vive per pochi istanti, ti lasciano un grande arricchimento.

Durante questo viaggio ci sono state delle persone, vicende o episodi che l’hanno colpita in modo particolare?

La cosa più bella e inaspettata dell’Alzheimer è che i volti che ti colpiscono sono tanti, è letteralmente impossibile individuare un solo volto tale è la varietà delle storie che ho incontrato. Il fatto che non ci sia stata una persona che mi ha colpito più di altre, nelle rispettive diversità, è un segno a mio avviso positivo, una sorpresa.

La molla del libro era proprio la voglia di conoscere le persone; anche qui ritorna l’importanza del viaggio quale chiave per cambiare e comprendere, per spostare il nostro punto di vista e ascoltare le voci di chi non pensiamo più sia un individuo, ma che in realtà continua a dirci qualcosa.

Dal Rapporto Mondiale Alzheimer 2015 emerge che in Italia sono 1 milione e 241mila le persone colpite da questa malattia e circa 3 milioni quelle coinvolte nell’assistenza. E’ cambiata, e se sì come, la situazione dai tempi dell’esperienza di sua madre ad oggi?

Oggi l’Alzheimer è molto più presente rispetto agli anni ’90. La società è più consapevole anche se va fatta ancora tanta strada affinché si racconti, si diffonda la consapevolezza che chi ha l’Alzheimer continua comunque ad essere una persona e come tale può viaggiare, può ascoltare musica, apprezzare l’arte, scoprire il mondo con altri occhi, in sostanza può continuare a vivere una vita dignitosa anche se dimentica che giorno è oggi.

Siamo in un momento storico in cui l’Alzheimer non è più visto come una condizione ‘esotica’, sconosciuta, ma permane ancora la concezione che sia un macigno che colpisce le persone e le famiglie e di cui non si può fare nulla perché le risposte farmacologiche ancora non ci sono.

Il punto, in realtà, è che sappiamo ancora troppo poco dell’Alzheimer e di chi vive questa condizione. E’ sì un macigno, ma non così invalidante da impedire alle persone che ne sono affette di continuare ad essere attive. Alla base del cambiamento culturale che la società civile e le istituzioni devono ancora fare c’è l’idea di celebrare il possibile, di osare, di accettare le persone con demenza, e più in generale di tutti coloro che vivono una forma di non autosufficienza.

Si tende ancora a vedere le condizioni di difficoltà a compartimenti stagni, quasi concorrenti; ciò nasce dal fatto che la società porta le comunità quasi a lottare per avere il proprio posto al sole, che sia uno spot nei media o un finanziamento. Questa è la sfida che ancora oggi la nostra società fatica ad affrontare.

Dal suo libro emerge uno spaccato dell’Italia in cui a situazioni estremamente positive si affiancano ancora tanta ignoranza ed insensibilità, sia politica che culturale. Può fare un confronto con le altre realtà europee che ha avuto modo di conoscere, ad esempio l’Olanda?

Questo viaggio, da un lato, ha confermato i giudizi negativi che avevo su alcuni luoghi di cura ed assistenza per nulla dignitosi per i malati di Alzheimer; dall’altro però ho avuto modo di conoscere luoghi in cui la celebrazione del possibile, e quindi anche la possibilità di continuare a vivere una vita ricca, è posto a fondamento dell’intero lavoro di assistenza. L’aspetto paradossale è che la questione non dipende dalle risorse economiche, bensì dal capitale umano, dall’importanza che riveste la relazione nella gestione del malato.

I Caffè Alzheimer, i meeting point, le Rsa aperte, così come le Dementia Friendly Comunities diventano in quest’ottica strumenti fondamentali per far sì che la persona con Alzheimer non si isoli sempre di più dal contesto in cui vive. Talvolta, infatti, le case possono diventare delle prigioni per via del senso di vergogna o protezione che portano tanto i malati quanto le famiglie ad una chiusura totale .

Anche se credo fermamente che bisogna rimanere il più possibile nella propria casa, perché è per tutti il porto sicuro a cui fare ritorno, se questa diventa una chiusura verso l’esterno non fa altro che peggiorare la condizione di chi vive la malattia.

Facendo riferimento all’Olanda, ad esempio, a settembre, il mese mondiale dell’Alzheimer, circolano spot informativi che mostrano come si può vivere al meglio anche con la demenza. Quello che Lucio Dalla definiva “Il declino come libertà”: quello che ancora manca in Italia e che in altri Paesi, come appunto l’Olanda, invece c’è è la percezione che il declino degenerativo sia uno spazio che si può riempire di cose belle.

Un’altra figura che in Olanda esiste, e ancora troppo poco in Italia, è quella dal Case Manager: un assistente che si prende in carico dell’intero percorso di malattia che la famiglia affronta, consigliando cosa fare e a quali servizi rivolgersi. Il problema è che da noi tra le tante realtà positive e quelle negative c’è un’enorme fascia grigia in cui l’organizzazione del lavoro di assistenza è ancora visto come rigido e immutabile. Il modello delle case di riposo e delle Rsa come grandi ospedali oggi è inadeguato e va sostituito con un modello più a misura di persona (small scale living). L’Alzheimer oggi, infatti, è più un problema sociale che sanitario e per questo vanno sensibilizzate tutte le componenti della società.

Riuscirà quindi il nostro Paese, e più in generale le società occidentali, a far fronte all’incremento demografico della popolazione della cosiddetta terza età, di cui una buona parte soffre di Alzheimer (secondo il Rapporto Mondiale Alzheimer 2015 nel 2050 saranno 131, 5 milioni i malati a livello globale)?

Con lo spostamento sempre più in là dell’asticella anagrafica saremo sempre più acciaccati, per questo fare delle divisioni delle situazioni di non autosufficienza non ha senso. Dal punto di vista delle istituzioni questa parcellizzazione è più comoda perché permette di controllare più facilmente, invece, dobbiamo fare un salto culturale ineludibile: quante persone oggi hanno a carico un proprio caro che vive forme di fragilità?

Da un lato abbiamo allontanato la fragilità e la vecchiaia dal nostro modo di vivere, dal’altro però il tempo della vecchiaia si sposta sempre più in là. Prevale l’immagine dei nonni bionici, mentre quella degli anziani fragili rimane stigmatizzata e questo è un paradosso. La stessa vecchiaia, infatti, così come la non autosufficienza può essere percepita come sufficienza se il soggetto fragile ha attorno a sé un ambiente inclusivo.

Nel suo libro accenna all’epidemiologo Massimo Musicco che riferendosi al rapporto tra i due grandi mali della nostra epoca, demenza e cancro, parla di “strana antipatia” avvalorando la tesi di alcuni studi statunitensi e giapponesi secondo cui i malati di Alzheimer si ammalerebbero meno di tumore e viceversa. Ha un’opinione riguardo questa mutua esclusione?

Cancro e Alzheimer sono le due grandi malattie che fagocitano le nostre paure. Mi ha colpito che ci siano studi scientifici che dimostrerebbero che chi ha il cancro non sviluppa l’Alzheimer e viceversa. Da un lato, sembra quasi fantascienza che ciò che combatte la possibilità di contrarre il cancro nelle fasi riproduttive della vita nasconda questo altro lato della medaglia; dall’altro, invece, è affascinante che due mondi in apparenza così distanti siano indissolubilmente legati.

Letizia Pieri

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