Accecato dalla guerra ai sindacati, il governo si è macchiato di una duplice colpa: aver assunto una posizione precisa in caso di pestaggio gratuito a lavoratori nel pieno di una legittima manifestazione, voltando, insieme, le spalle a quegli stessi principi ispiratori che animano la discussione sul Jobs Act.
Perché, alla fine, è essenzialmente questo di cui si tratta. Quanto avvenuto nei giorni scorsi al corteo degli operai dell’Ast di Terni, non è altro che il picco di tensione in quasi due mesi di strappi continui tra governo e sindacati, impegnati a farsi la guerra a scopi politici e sempre più distanti dal paese reale.
Su queste pagine, lo abbiamo scritto più volte: l’articolo 18 è un simulacro, soprattutto per la generazione di lavoratori tra i 20 e i 40 anni, quelli che non avranno mai una pensione e, di questo passo, neanche un lavoro sicuro. In questo stato, ben vengano misure che favoriscono la somministrazione di contratti a tempo indeterminato, pur con minori tutele sul licenziamento, a fronte di convinti passi in avanti sul fronte di diritti inviolabili della persona, come quello alla maternità, oggi negato a troppe lavoratrici in età già avanzata per avere un figlio.
Ma da qui ad arrivare a bastonare liberamente degli operai in protesta, ce ne passa. La conferma di quanto accaduto è la solita esasperazione del clima, escamotage sempre utile a perpetuare l’immobilismo italico, un tranello in cui anche il governo dei quarantenni è caduto con tutte le scarpe. Il risultato sarà, anche stavolta, un Jobs Act fortemente ridimensionato, se mai arriverà in porto.
L’ultima occasione, la maggioranza l’ha sprecata proprio ieri sera, lasciando Alfano al proprio posto come se nulla fosse accaduto. Appoggiando la mozione presentata da MoVimento 5 Stelle, Sel, Lega Nord e Fratelli d’Italia contro il titolare del Viminale, il governo non solo avrebbe scaricato un elemento fonte di continui imbarazzi – come dimenticare il caso Shalabayeva – ma avrebbe rivendicato una concreta vicinanza ai lavoratori. Invece, ancora una volta a prevalere è stato il calcolo, l’opportunismo politico e il Pd, compatto, ha votato no sulla sfiducia ad Alfano.
Questo, nonostante documenti come il video mostrato domenica alla trasmissione di Rai 3 Gazebo abbiano chiaramente dimostrato come la versione raccontata dal ministro dell’Interno in Parlamento sui fatti di Roma, con le manganellate che hanno coinvolto in prima persona anche il segretario Fiom Maurizio Landini, facesse acqua da tutte le parti. L’azione delle forze dell’ordine – a cui il sindacalista urlava in continuazione “ma che fate? Siamo con voi” – è stata deliberata, ordinata dall’agente in borghese che, all’avvicinarsi del corteo gridava agli agenti “Caricate! Caricate!” prima di qualsiasi impatto tra corteo e poliziotti. Da parte degli operai, infatti, non c’era stata alcuna forzatura, né si era manifestata l’intenzione, come raccontato dal ministro, di recarsi alla stazione Termini con la possibilità di creare disordini. Gli animi, già accesi per la vertenza sindacale, si erano poi surriscaldati per il cordone creato dalle forze dell’ordine, che aveva costretto ad allungare il percorso in direzione del ministero dello Sviluppo Economico – punto d’arrivo della manifestazione – con il caos che ne è scaturito.
Anche di fronte all’evidenza di prove inconfutabili, dunque, la maggioranza e in particolare il Partito democratico hanno preferito abbassare gli occhi pur di salvare la stabilità del governo e uno dei suoi più preziosi alleati. Una decisione passata sotto silenzio, ma di cui prima o poi il premier Matteo Renzi e gli altri membri dell’esecutivo saranno chiamati a rendere conto. Da oggi, credere alla storia di “Marta”, la ragazza precaria ideale che il governo ha rivendicato di prendere in carico, è molto più difficile.
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