Abolizione province in Sicilia, caos (non calmo)

Luigi Oliveri 06/03/13
Il disegno di legge di abolizione delle province in Sicilia, insieme col restante pacchetto, dalle notizie apparse sui quotidiani appare una frettolosa e velleitaria risposta all’ostracismo di piazza nei confronti delle province.

E’ giusto premettere che lo Stato e le regioni hanno il diritto di determinare l’assetto organizzativo delle istituzioni come meglio credono. La Sicilia, per altro, in quanto regione ad autonomia speciale, ricava dallo Statuto la legittimazione a procedere nella regolamentazione degli enti locali e non dalla Costituzione.

E’ perfettamente possibile, dunque, intervenire per modificare l’ordinamento locale e, perché no, abolire le province.

Il fatto è che l’iniziativa del governo regionale siciliano, al pari dell’azione svolta nei mesi scorsi dall’esecutivo nazionale, appare fortemente viziata da contraddizioni e carenze normative, che rendono praticamente inevitabile andare incontro al caos.

Nulla ci sarebbe da obiettare se in conseguenza dell’abolizione delle province si stabilisse di cancellare del tutto il livello intermedio di governo tra comuni e regioni, passando integralmente il pacchetto di funzioni e competenze ad uno dei due livelli residui. E ancor meno, nulla sarebbe da dire (salvo approfondire i problemi operativi scaturenti da una poderosa riorganizzazione conseguente alla scelta di abolire enti rilevanti come le province) se tali funzioni e competenze fossero assegnati alle regioni, considerando che la loro dimensione travalica i confini comunali.

Invece, il disegno di legge regionale siciliano abolisce le province, ma non cancella il livello intermedio tra comuni e regioni. Infatti, in attuazione dell’articolo 15 dello Statuto regionale, dà il via alla costituzione di “liberi consorzi comunali”.

Le caratteristiche di questi nuovi enti, in sintesi, da quanto sin qui emerso, sarebbero:

a)                          la presenza di organi di governo (presidente, giunta e consiglio) “di secondo grado”, cioè non eletti direttamente dal corpo elettorale, ma designati dai comuni, scegliendoli tra i sindaci ed i consiglieri; la carica, in tali consorzi sarà gratuita, pur essendo previsti i rimborsi spese;

b)                          il mantenimento di tutte le funzioni e competenze proprie delle province, ad eccezione di quelle concernenti gli istituti scolastici superiori e le strade; le scuole andrebbero ai comuni, le strade al Genio civile;

c)                          la previsione di una circoscrizione territoriale di almeno 150.000 abitanti;

d)                         l’acquisizione delle funzioni del ciclo dell’acqua e dei rifiuti, conseguente all’abolizione delle autorità d’ambito e delle società di gestione da queste costituite.

Ora, da questo scheletro (occorrerà un’anali più approfondita del pacchetto di leggi di riforma) emergono già punti debolissimi e di contraddizione insanabile. Vediamoli.

La Sicilia ha una popolazione di circa 5 milioni di abitanti. Dividendo tale cifra per 150.000 (il numero minimo di abitanti per consorzio), si scopre che al posto di 9 province potrebbero sorgere ben 33 liberi consorzi. Per altro, a geometria continuamente variabile, vista la flessibilità con la quale si consente ai comuni di entrarne e di uscirne. In più, vi sono le tre città metropolitane di Palermo, Catania e Messina.

Se l’obiettivo della riforma, allora, fosse la semplificazione dell’assetto istituzionale e la riduzione dei “centri di potere/spesa”, il fallimento è già insito nella stessa idea presentata. Anzi, proprio questa semplicissima osservazione è la prova che la legge di abolizione delle province in Sicilia non ha alcun obiettivo ponderato, se non quello di vellicare il popolo, offrendo il trofeo della cancellazione delle province. Nella convinzione che basta far passare questo messaggio nell’immaginario collettivo, al netto di tutti i problemi di organizzazione ed efficienza che ne deriveranno, per mantenere ed anzi acquisire consenso. E, probabilmente, sul piano mediatico tale convinzione è corretta, vista la incessante campagna di stampa, che martella da almeno 6 anni.

Si dirà che, però, grazie al disegno di legge:

a)      si risparmieranno i costi della politica;

b)      si chiuderà con l’eccesso di consulenze ed incarichi;

c)      si razionalizzeranno i costi.

Anche questi, sono discorsi in astratto sempre validi, che, però, vanno confrontati con i dati reali delle norme.

Ad esempio, il risparmio sui costi della politica si potrebbero ottenere esattamente nello stesso modo, lasciando intatte le province, stabilendo da subito la totale gratuità di ogni carica politica e, per risparmiare i costi elettivi (ma, in democrazia, le elezioni sono da considerare un costo?) stabilire che alla scadenza dei vari mandati politici, subentri il sistema di designazione di secondo grado degli organi politici. L’effetto finanziario sarebbe il medesimo, senza lo stravolgimento e l’impatto dell’eliminazione di 9 enti, e la costituzione al loro posto di altri 33.

In quanto a consulenze e incarichi, appare certamente corretto e vero che essi siano spesso “costi della politica”. Ma, per eliminarli o ridurne i costi, non sembra proprio centratissimo produrre 33 enti al posto dei 9 esistenti.

Il rischio, anzi, è che i nuovi enti, di dimensioni minori e, dunque, con dotazioni di personale, strumentali, organizzative, inferiori, avranno gioco facile a motivare e chiedere collaborazioni esterne. Inoltre, se molte volte consulenze esterne altro non sono se non favori a professionisti che garantiscono il consenso, se nei consorzi continua ad essere presente la politica, sia pure eletta in secondo grado, nulla esclude che i metodi restino uguali e che, dunque, i politici continuino con le consulenze e gli incarichi.

La strada per risparmiare i costi delle consulenze esterne (nel 2010, dati del Conto del personale elaborato dalla Ragioneria generale dello Stato, si sono spesi 2,5 miliardi in Italia) è una sola: vietarli definitivamente e senza eccezione alcuna, superando, dunque, l’attuale normativa che li ammette, sia pur attraverso mille ostacoli burocratici, per nulla utili a fare da deterrente, ma se mai finalizzati solo a far accrescere l’immane contenzioso amministrativo e contabile connesso con questa fattispecie.

La razionalizzazione dei costi è sempre la benvenuta. Ma, leggendo il testo della proposta di legge si osserva come il grandissimo assente è proprio l’elemento finanziario, cui non è dedicato nemmeno un cenno.

Si osserva, tuttavia, che da quanto fin qui apparso gli unici risparmi che deriverebbero dall’iniziativa legislativa sarebbero quelli connessi a indennità e gettoni degli amministratori provinciali. Ma, come detto sopra, per ottenere un risultato del tutto uguale, bastavano mosse molto più semplici e meno impattanti.

Se così stanno le cose, l’iniziativa legislativa dimostra un dato oggettivo, che però i fautori dell’abolizione delle province ad ogni costo, volutamente ignorano o mistificano: i risparmi derivanti dall’abolizione o riordino di questi enti sono sostanzialmente irrisori. Mentre non sono noti i costi derivanti dalla riorganizzazione; col pericolo che essi possano rivelarsi maggiori dei supposti benefici.

Per non lasciare indimostrato quanto poco sopra affermato, guardiamo alla riforma. Le funzioni concernenti gli istituti scolastici superiori passerebbero ai comuni.

Le funzioni provinciali in questo ambito sono essenzialmente 2:

a)      la programmazione della didattica, anche in relazione alle strutture edilizie esistenti;

b)      l’edilizia scolastica.

Ora, per la programmazione, risulta piuttosto evidente che uno sguardo limitato al confine comunale è deleterio. O, infatti, ogni comune decide di realizzare nel suo territorio ogni tipologia di istituto superiore, cosa improponibile. Oppure, occorre verificare quale tipologia di sviluppo e quale mercato del lavoro esiste in un’area più ampia, per orientare soprattutto gli istituti tecnici verso gli studi e le competenze adeguati, collocando le strutture scolastiche in fulcri del bacino territoriali capaci di raccogliere le iscrizioni, confrontarsi con le imprese, affrontare l’impatto di migliaia di studenti che giornalmente vanno a scuola. La programmazione, pertanto, richiede anche connessione con i trasporti e con la logistica.

Un ente sovra comunale (ma potrebbe essere anche la regione) riesce ad effettuare una programmazione efficiente. Un comune, ovviamente, no. Sarebbe una programmazione asfittica e limitata, che lascerebbe campo a scelte progressivamente imposte dall’alto, dal Miur. Non ci vuol molto a capirlo.

Più gravi ancora le conseguenze sull’edilizia scolastica. Parte rilevantissima delle spese di investimento delle province riguardano costruzione e manutenzione delle scuole, ricevute in “dono” nel 1999, in attuazione della legge 23/1996 da comuni e Stato in condizioni a dir poco disastrose e ancora non del tutto messe a posto.

Spesa di investimento, significa patto di stabilità. Se si scarica sui comuni la competenza sull’edilizia scolastica, ma senza accompagnare l’idea con una revisione drastica delle regole del patto di stabilità, si ottengono solo due risultati:

a)      mandare in dissesto i comuni;

b)      o, in alternativa, bloccare del tutto qualsiasi investimento sulle scuole.

La funzione dell’edilizia scolastica, se trasferita, comporta oneri: i debiti dei mutui contratti, gli appalti per le utenze, gli appalti per le manutenzioni. Questi, per altro, sono strettamente legati alla quantità e alla dimensione: riducendosi metri cubi da gestire, i costi unitari rischiano di salire non di poco.

Ai comuni occorrerebbe, allora, trasferire parte delle entrate delle province, mentre si riformulano i parametri del patto di stabilità: il conteggio dei pagamenti sugli appalti in conto capitale connessi ai lavori nelle scuole, senza tale revisione del patto, li farebbe andare immediatamente in tilt.

Non risulta che questi elementi siano stati affrontati dal disegno di legge. Che, del resto, non potrebbe.

Non si vuol capire, infatti, che l’abolizione o la riforma delle province deve essere non presupposto, ma conseguenza, di un prius logico indispensabile, cioè la revisione della finanza locale.

Occorre sapere prima e con estrema precisione quali funzioni vadano ai comuni, quali alle regioni e quali restino alle province modificate o ai consorzi (o qualsiasi altro ente comunque denominato) che subentri al loro posto. In relazione a questo, è possibile determinare quali risorse sono necessarie per gestire quelle funzioni, per spostare le entrare che le finanziano verso gli enti che le acquisiscono. Altrimenti, si creano solo buchi nei bilanci.

Certo, si possono creare economie di scala, cosa che si dice molto di frequente. Ma, l’economia di scala si realizza se funzioni e spese passano da una scala più piccola, ad una più ampia. Però, come visto, il disegno di legge non solo passa da 9 province a 33 consorzi, ma appunto per le funzioni della scuola passa dalla scala provinciale a quella comunale. L’esatto contrario di quello che dovrebbe essere l’effetto del riassetto delle competenze.

In molti esultano perché alle province si imputa di essere un “costo”, di essere produttori solo di manifestazioni e sagre.

Le province ovviamente costano, in realtà spendono, risorse, per lo svolgimento dei servizi. Il volume della spesa delle province, sul totale della spesa pubblica italiana, è dell’1,37% (11 miliardi su 805 miliardi nel 2013.

Questi 11 miliardi non si risparmiano se si aboliscono le province, in quanto sono connessi a funzioni e servizi che restano in piedi e, se non resi dalle province, vengono resi da altri soggetti, per altro col rischio dell’incremento dei costi, laddove si persegua la scelta scellerata di sminuzzare le competenze provinciali tra comuni e liberi consorzi, invece di concentrarle.

Le sagre e le feste non sono una competenza fondamentale delle province e, per altro, a meno che non si tratti di strumenti di attrazione turistica veramente e dimostratamente forti e rilevanti, nemmeno dei comuni: sarebbero da abolire totalmente. Ma, per le province, basterebbe determinare in modo tassativo le competenze, eliminando questo “asset”.

Non si tratta di una critica all’intervento legislativo siciliano in difesa delle province, le quali come sono sorte, possono anche essere estinte. Il problema è il modo col quale si procede, che appare un salto nel buio, senza alcuna ponderazione, che non tiene insieme, come invece è indispensabile, l’assetto istituzionale con quello finanziario e contabile.

Che le province si aboliscano, allora. Ma non si può sfuggire alla necessità che il sistema di riorganizzazione di funzioni e competenze non sia improvvisato sull’onda della campagna di stampa, prima, e della necessità di compiacere al movimento 5 stelle, ora, perché un governo, nazionale o regionale che sia, resti in piedi.

 

Luigi Oliveri

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