Pubblichiamo in esclusiva l’intervento del professor Pietro Ciarlo, in audizione alla Commissione Affari Costituzionali della Camera dei deputati loscorso 23 ottobre sul tema dell’abolizione delle Province. Il parere espresso da Ciarlo, membro della commissione di esperti sulle riforme voluta dal governo Letta, è antecedente alla bocciatura del ddl Delrio da parte della Corte dei conti (Nota della redazione)
Audizione informale di esperti nell’ambito dell’esame del disegno di legge A.C. 1542 recante: “Disposizioni sulle città metropolitane , sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni”
Commissione Affari Costituzionali
Camera dei deputati
Relazione del Prof. Pietro Ciarlo – Ordinario di Diritto Costituzionale nell’Università di Cagliari
23 Ottobre 2013
a cura del dott. Marco Betzu
1. Sul disordine normativo generato dai recenti provvedimenti.
Il sovrapporsi disordinato di provvedimenti sul sistema delle autonomie locali, sul destino delle Province, sull’istituzione delle Città metropolitane, sulla riduzione della frammentazione territoriale dei Comuni lascia disorientati.
La prima domanda che dobbiamo porci riguarda la tendenza, ossia se questo disordine istituzionale e normativo vada riducendosi per effetto dei provvedimenti e delle proposte più recenti, o se, viceversa, esso sia ancora in crescita.
L’art. 12 del decreto-legge n. 93/2013 prevedeva, nei primi tre commi, che fossero fatti salvi i provvedimenti di scioglimento degli organi e di nomina dei commissari straordinari delle amministrazioni provinciali, adottati, in applicazione dell’articolo 23, comma 20, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, ai sensi dell’articolo 141 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 e che le gestioni commissariali sarebbero cessate il 30 giugno 2014.
L’art. 23, comma 20, del decreto Salva Italia aveva disposto, infatti, lo scioglimento e il commissariamento degli organi provinciali che avrebbero dovuto essere rinnovati entro il 31 dicembre 2012. L’art. 12 è stato soppresso dalla legge di conversione n. 119 del 2013, intervenuta il 15 ottobre scorso, ma l’art. 2 della medesima legge ne ha riprodotto sia il comma 1 che il comma 2. Si sono determinate alcune criticità di grande rilievo, di cui peraltro il disegno di legge n. 1542 sostanzialmente non si occupa, anzi se possibile accresce. Viceversa, qualsiasi nuovo intervento legislativo dovrebbe prendere l’avvio proprio dall’ imprescindibile esigenza di dare ordine alla materia qualsiasi sia l’opzione strategica prescelta. Si può scegliere di riformare le province o di sopprimerle, comunque bisogna tirar fuori l’ordinamento dal pantano in cui è stato gettato.
In questo contesto sorprende non poco l’insistenza con cui si cerca di aggirare ancora una volta le normative costituzionali e le relative sentenze della Corte. Se il precedente governo avesse avviato il processo di riforma come la logica ordinamentale richiede, cioè a partire dalla revisione costituzionale, probabilmente adesso avremmo nuove norme costituzionali che consentirebbero un lineare avanzamento della riforma.
Dunque dal punto di vista della legittimità costituzionale per evitare che i nuovi interventi legislativi riproducano errori già commessi non si può fare a meno di ricordare che i commi 1 e 2 dell’art. 12 del decreto-legge n. 93 – e ugualmente il successivo art. 2 della legge di conversione – mirano a salvare atti amministrativi nulli per difetto assoluto di attribuzione (ex art. 21-septies della l. n. 241 del 1990 ), in quanto adottati in applicazione di un atto normativo (il decreto Salva Italia) dichiarato incostituzionale. Sussistono dunque fondati dubbi di legittimità costituzionale delle due disposizioni, perché pretendono di aggirare gli effetti retroattivi della sent. n. 220 del 2013 della Corte costituzionale, violandone il giudicato. In particolare, l’incostituzionalità sarebbe determinata dalla novazione della fonte di validità dei provvedimenti citati, che si traduce, de facto, nel ripristino dell’efficacia della disposizione dichiarata incostituzionale. A ragionare diversamente si arriverebbe a legittimare l’adozione indiscriminata di provvedimenti legislativi retroattivi valevoli a sanare atti amministrativi nulli perché fondati su leggi incostituzionali, così neutralizzando in gran parte, quanto meno sul piano concreto, gli effetti delle sentenze costituzionali.
Un secondo profilo critico concerne la soppressione tout court del citato comma 3, il quale prevedeva la cessazione dei regimi commissariali delle Province al 31 giugno 2014, operata dalla legge di conversione. A seguito di questa abrogazione, caduto il termine in discorso, sembrerebbe sussistere una sorta di doppio regime, francamente insostenibile: Province con gli organi eletti e Province rette dai commissari fino a che non intervenga la riforma, ossia fino a un’eventualità che è auspicabile e possibile, ma non è certa, soprattutto nella condizione di fluidità politica di questo periodo. Invero, neppure, su questo specifico e del tutto esiziale aspetto il disegno 1542 ha ritenuto di dover intervenire.
Anche prescindendo dall’uso disinvolto della decretazione d’urgenza, sicuramente l’insistenza nel voler procedere con disciplina ordinaria a prescindere dalla necessaria revisione costituzionale incrementa fatalmente il disordine.
2. Sul rapporto tra disegno di legge ordinaria e disegno di legge di revisione costituzionale.
In questa fase, oltre al disegno di legge A.C. 1542, è all’esame del Parlamento anche il disegno di legge di revisione costituzionale, numerato A.C. 1543. Tuttavia, sembra si voglia ancora una volta far precedere la legge ordinaria alla revisione costituzionale. Non credo che questo sia possibile, perché esistono dubbi fondati di legittimità costituzionale della prefigurata legge ordinaria, ferma restante la disciplina costituzionale oggi vigente. Del resto, che il livello della questione sia su un piano costituzionale è dimostrato dalla stessa esistenza del disegno di legge di revisione costituzionale, A.C. 1543.
Il disegno di legge di revisione costituzionale, per la verità, interviene per sopprimere la tutela costituzionale delle Province, ma dice anche altre cose. L’art. 1, comma 1, esordisce affermando che “Sono abolite le province”, ma il successivo art. 3, rubricato “Norme transitorie” – ma in realtà tecnicamente difficilmente configurabile come norma transitoria – stabilisce che “Entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge costituzionale le province sono soppresse”. Le due disposizioni sembrano francamente antinomiche, o per lo meno, di difficilissimo coordinamento: questa contraddittorietà all’interno del medesimo testo normativo non è, ovviamente, auspicabile.
Peraltro le stesse ulteriori previsioni dell’art. 3 non sono esenti da critiche, perché da un lato pongono un termine meramente ordinatorio, dall’altro operano un rinvio alla legge statale che dovrebbe indicare i criteri e i requisiti generali che, a loro volta, permetteranno allo Stato e alle Regioni di individuare le forme e le modalità di esercizio delle “relative” funzioni.
In definitiva il disegno di legge costituzionale sembrerebbe scandire un iter procedimentale di soppressione delle Province così congegnato: a) approvazione della legge di revisione costituzionale che elimini la garanzia costituzionale dell’ente; b) approvazione di una legge statale che “Entro sei mesi” sopprima l’ente e definisca i succitati criteri e requisiti generali; c) approvazione di una legge statale e delle leggi regionali che individuino forme e modalità di esercizio delle funzioni prima spettanti alle Province. Ritenuto giustamente che debba essere una fonte di livello costituzionale a dover eliminare la garanzia costituzionale delle Province, la c.d. abolizione dell’ente non può che spettare alla legislazione ordinaria, che conseguentemente disciplini le correlate vicende successorie, prime fra tutte quella concernente la nuova attribuzione dei compiti ad oggi attribuiti all’ente provinciale. Ma allora è lo stesso impianto del disegno di legge costituzionale a presupporre – correttamente – che la legge ordinaria sia necessariamente successiva alla revisione costituzionale e non antecedente, come invece ipotizzato dal disegno di legge A.C. 1542.
In ogni caso non è buona pratica inserire all’interno di leggi di revisione costituzionali norme che non sono di revisione costituzionale, perché acquisiscono la forza della legge costituzionale pur non essendo poi in realtà delle norme che dal punto di vista sostanziale e della sistematica normativa vanno a completare il quadro costituzionale.
3. Sulla disciplina delle Province contenuta nel disegno di legge A.C. 1542.
In effetti il disegno di legge A.C. 1542 risente profondamente della diffusa ansietà riformatrice a Costituzione invariata. Tant’è che il comma 3 dell’art. 1 recita: “Le province, fino alla data di entrata in vigore della riforma costituzionale ad esse relativa, sono enti territoriali di secondo livello disciplinati ai sensi del capo III”. Quindi sembrerebbe che il disegno di legge A.C. 1542 introduca una sorta di disciplina provvisoria, vigente fino a che non intervenga la nuova disciplina costituzionale.
Significativo del disordine normativo che si continua a generare è, ad esempio, il comma 6 dello stesso art. 1: “Nel caso di cui al primo periodo del comma 4, le unioni sono disciplinate, per quanto non previsto dalla presente legge, dall’articolo 32 del testo unico, come da ultimo modificato dall’articolo 23 della presente legge. Nei casi di cui al secondo periodo del comma 4 e al comma 5, le unioni sono rispettivamente disciplinate, per quanto non previsto dalla presente legge, dall’articolo 14 del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, e successive modificazioni, e dall’articolo 16, commi da 1 a 16, del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, come da ultimo modificato dal comma 5 del presente articolo e dagli articoli 22 e 23 della presente legge”. Come dire, c’è molto lavoro per i costituzionalisti. Norme così dense di rinvii sono assolutamente sconsigliate, buona pratica sarebbe riscrivere la normativa in modo da consegnare ai destinatari un testo intellegibile.
C’è un altro punto che corre l’obbligo di segnalare: dalla lettura del disegno di legge A.C. 1542 emerge l’idea che vi siano due enti di secondo grado, ossia l’Unione di Comuni e la Provincia trasformata. La situazione è molto delicata, perché si prevedono due enti strutturalmente non molto dissimili, che gravano sugli stessi territori, ambedue espressione dei Comuni. Sennonché in generale c’è un indirizzo a creare Unioni di Comuni di ampia dimensione, allora solo la labile demarcazione funzionale varrebbe a differenziare Unioni di Comuni e Province. Ciò anche tenendo conto che nel disegno di legge A.C. 1542 – ove mai entrasse a regime – lo strumento convenzionale, ovvero il contrattualismo funzionale tra i Comuni, pure in tanti casi rivelatosi prezioso, verrebbe sostanzialmente vietato, a favore dell’ente Unione di Comuni. Questo è uno dei punti centrali nella costruzione strategica del disegno di legge, come finemente rilevato dall’ On.le Balduzzi.
Per quanto riguarda le province non credo sia utile, su un piano comparato, il richiamo all’ordinamento francese, infatti, anche se in generale l’ ordinamento italiano appartiene certamente alla famiglia di quelli napoleonici, nel corso del tempo la storia delle province si è notevolmente differenziata. Ad esempio, in Francia, fino al 1982 l’organo esecutivo dei Dipartimenti è stato il Prefetto, mentre in Italia questo ente territoriale ha assunto una più consolidata natura rappresentativa.
4. Sulla disciplina della città metropolitana, in particolare su quella di Roma.
Ulteriori notazioni problematiche riguardano le città metropolitane. Il comma 2 dell’ art. 2 del 1542 in linea generale prevede che il territorio della città metropolitana coincida con quello della provincia omonima ferma restando la possibilità dei comuni limitrofi di aderire alla città metropolitana seguendo le procedure di cui all’ art. 133 della Costituzione che disciplina la procedura di variazione delle circoscrizioni provinciali. Delle due l’una: o il 1542 presuppone la soppressione della garanzia costituzionale delle province, e quindi, l’abrogazione anche dell’ art. 133 Cost., o la sopravvivenza dell’art. 133 e quindi delle province. Con un pizzico di ironia potremmo dire: tertium difficilmente datur. Andiamo avanti.
L’art. 16, comma 2, del disegno di legge in questione prevede che “Si applicano anche alla città metropolitana di Roma capitale le norme previste dall’articolo 3, salvo che, fino all’eventuale adesione di altri comuni alla città metropolitana, il sindaco di Roma assume le funzioni di sindaco metropolitano e l’Assemblea capitolina assume le funzioni sia del consiglio sia della conferenza metropolitana”. Il successivo comma 3 stabilisce che “Entro il 28 febbraio 2014 i comuni del territorio della provincia di Roma confinanti con il territorio del comune di Roma capitale possono, su proposta del consiglio di Roma capitale, deliberare, con atto del proprio consiglio, adottato a maggioranza assoluta dei votanti, di aderire alla città metropolitana di Roma capitale. Sono quindi disposti, con legge dello Stato, ai sensi dell’articolo 133 della Costituzione, le relative modifiche territoriali e il passaggio dei comuni interessati all’ambito territoriale della città metropolitana. I comuni oggetto della predetta legge mantengono la natura giuridica di comuni autonomi nell’ambito della città metropolitana di Roma capitale”.
A parte il perdurante richiamo all’ 133 della Cost., ne deriverebbe che il consiglio della città metropolitana di Roma coinciderebbe con il consiglio comunale di Roma e che poi la città metropolitana – vale a dire il Comune di Roma – potrà chiedere agli altri Comuni di afferire alla città metropolitana stessa, invertendo le logiche della costruzione di tale ente, ovvero quelle che ipotizzano una preventiva necessaria perimetrazione e organizzazione dei Comuni contermini. Sulla base della disciplina contenuta nel disegno di legge A.C. 1542, realisticamente della città metropolitana di Roma farà parte solo il Comune di Roma, con esclusione, dunque, tra gli altri, dei Comuni di Ciampino, di Fiumicino e, finanche – oserei dire – di Castel Gandolfo. Risultato: una città metropolitana di Roma Capitale senza Papa e senza aeroporti.
Aggiungasi poi che sulla base del successivo comma 5, primo periodo, “La provincia di Roma resta in funzione limitatamente al territorio residuo rispetto a quello della città metropolitana di Roma capitale”. Si realizza così un micidiale patchwork istituzionale, foriero di disordine e incertezza, senz’altro non idoneo a generare significativi risparmi di spesa, ad innalzare il rendimento delle istituzioni e tanto meno a semplificare l’azione amministrativa.
5. Conclusioni.
Sulla base di un’ analisi completa del disegno di legge in discorso potrebbero essere sviluppate ulteriori osservazioni di tenore simile a quelle dianzi svolte, ma mi sono voluto limitare a queste ultime in quanto presentano una maggiore intuibilità e, dunque, appaiono maggiormente esemplificative.
In sintesi le questioni emergenti paiono essere sostanzialmente due. Innanzitutto esiste un problema immediato di soluzione del caos normativo generato dall’ansia riformatrice ed è questo il primo punto su cui ragionare anche per definire delle opzioni strategiche. La semplificazione istituzionale favorisce la competitività dei territori, ma allora bisogna immediatamente riordinare la normativa vigente: non si possono governare le Province tuttavia esistenti in queste condizioni. Il secondo punto riguarda l’acquisizione del convincimento che per sopprimere o per modificare in profondità l’ ente provincia non si può prescindere da una previa revisione costituzionale. A volte seguendo la via maestra, invece di impervie scorciatoie, il percorso risulta più rapido e sicuro.
Permane un dubbio di fondo: se sia il caso di demonizzare le Province o, piuttosto, di considerare che l’Italia appenninica, l’Italia alpina e più in generale l’Italia delle zone interne vive di identità e di funzionalità provinciale. La dimensione provinciale è un simbolo che va oltre la mera delimitazione amministrativa e che non sembra opportuno sia cancellato d’emblée. Peraltro, spesso la provincia costituisce un’esternalità positiva per il tessuto economico. Essa sicuramente ammaglia dal punto di vista antropologico e sociale i territori, alcuni almeno altrimenti condannati all’ abbandono definitivo. Anche questa prospettiva credo debba essere presa in considerazione da chi propone riforme ordinamentali in nome di risparmi di spesa pubblica quanto meno dubbi. La soppressione indiscriminata delle Province in tutto il territorio nazionale realizza, invece, una disciplina uniforme che tratta in modo eguale situazioni disuguali, perché non tiene conto delle specificità dei diversi contesti territoriali, come ad esempio la scarsa densità antropica dell’area vasta o esigenze socio-culturali peculiari, in contrasto con il canone della ragionevolezza il cui fondamento generale è ravvisabile nell’art. 3, comma 1, Cost.. Se mi è consentita una notazione di merito: sono convinto che l’istituto provinciale debba essere riformato a partire da una idonea revisione del testo costituzionale, per esempio trasformandolo in ente di secondo grado, ma non credo si faccia un buon servizio al paese sopprimendo la ripartizione del territorio in province. Le opzioni che vengono avanzate dovrebbero tenere in debita considerazione soprattutto quell’intreccio tra sviluppo economico, coesione sociale e assetto istituzionale calibrato sulla capacità di affrontare i fenomeni e i problemi di “area vasta”. In fin dei conti la ripartizione del territorio in province è qui per questo.
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