Su queste responsabilità potrà fare luce l’indagine giudiziaria in atto della quale si dovranno attendere gli esiti. Come ha giustamente rilevato il Procuratore capo di Reggio Emilia, le indagini si occupano di fatti e non di metodologie. Sono stati però clamorosamente sollevati problemi più generali dei quali si discute da molti anni tra gli addetti ai lavori e che meritano alcune precisazioni in merito a tre aspetti cruciali: la raccolta della testimonianza dei minori presunti vittime, le prassi di prevenzione e di contrasto del maltrattamento e la formazione degli operatori.
Il primo aspetto riguarda i contesti di audizione dei minori presunte vittime di abusi e maltrattamenti. Risulta davvero sconcertante lo iato tra teoria e prassi in questo ambito. La comunità scientifica ha approfondito e studiato da diversi decenni le buone pratiche da applicare: ricordo il Memorandum of good practice in uso nel Paesi anglosassoni, le Guidelines on Memory and Law promosse dalla Società britannica di Psicologia e, in Italia, le diverse edizioni della Carta di Noto, le Linee Guida Nazionali sul minore testimone redatte al termine di una consensus conference che ha coinvolto sei società scientifiche, le Linee Guida della Questura di Roma. Tutti questi documenti raccomandano unanimemente la cautele da adottare: evitare le domande suggestive e le modalità pressanti volte ad ottenere una “rivelazione” ad ogni costo, adattare la formulazione delle domande e la conduzione dell’intervista alle capacità del minore, applicare i protocolli di intervista messi a punto a livello internazionale come la Step-Wise Interview o l’NICHD.
Nonostante tutti questi sforzi si ripetono quasi implacabilmente audizioni condotte anche da “esperti” secondo modalità che si pongono in assoluto contrasto con le regole raccomandate, volte a sollecitare racconti che soddisfino le aspettative più o meno esplicite degli interroganti sino a “pilotare” le dichiarazioni dei bambini (naturalmente educati e predisposti a compiacere i loro interlocutori adulti) in una certa direzione. Modalità, queste, massicciamente rilevate nella vicenda Angeli e Demoni. Psicologi come Claudio Foti, direttore del Centro Hansel e Gretel, non solo praticano ma insegnano ai loro allievi procedure e metodi abissalmente distanti da quelli indicati dalla comunità scientifica: il bambino da considerare e da trattare come “bocca della verità”, l’ascolto “empatico” e “terapeutico” volto a identificarsi nel bambino dal quale ci si attende ed a cui si sollecita la rivelazione, la ricerca dei cosiddetti “indicatori di abuso” (la cui inconsistenza è stata più volte ribadita dagli studi in materia) nei comportamenti, negli atteggiamenti e addirittura nelle produzioni grafiche dei bambini. Giungendo ad accusare chi ha opinioni diverse di essere “negazionisti” (negando essi la verità dell’”Olocausto dell’abuso”) e di operare “suggestioni negative” sui bambini attraverso metodi di ascolto troppo “neutrali”.
Numerose volte sono stati evidenziati (fuori e dentro le aule dei tribunali) i rischi che queste prassi distorsive e questi cattivi insegnamenti producono sia per la ricerca della verità processuale, con inquinamento della prova dichiarativa, sia per le conseguenze a carico dei bambini stessi: due illustri psicoanalisti come Fonagy e Sandler scrissero anni fa che coinvolgere un bambino in un procedimento infondato di abuso può essere egualmente pericoloso quanto ignorare un abuso realmente esistente. Si propone e si produce una fuorviante confusione di contesti, nella quale la psicoterapia viene impropriamente utilizzata per ottenere rivelazioni ai fini giudiziari ed il solo sospetto di un abuso autorizza un percorso di cura senza che ve ne siano i presupposti.
Al di là del procedimento in atto per frode processuale che ha determinato gli arresti domiciliari del dott. Foti e dei suoi esiti, questa vicenda dovrebbe consentire riflessioni più approfondite, anche in seno alla magistratura, riguardo il numero troppo elevato di errori giudiziari spesso drammatici che queste cattive prassi favoriscono: come nel caso di Rignano Flaminio, come nel caso delle scuole Abba e Sorelli di Brescia, come nel caso dei Diavoli della Bassa modenese rivelato dalla inchiesta Veleno.
Il secondo aspetto pone questioni molto delicate che si legano ai punti esposti nell’art. 8 del Protocollo della Convenzione dei diritti del fanciullo di New York, ratificato il 6 settembre 2000 (L. 11 marzo 2002 n. 46): coesistenza, ad ogni stato della procedura penale, delle necessarie misure di protezione dei diritti e degli interessi dei minori vittime con le misure dirette all’accertamento dei reati; riconoscimento dei particolari bisogni dei minori vittime dei reati e prevalenza, nel modo di trattarli, del loro interesse; diritto dell’accusato ad un processo equo ed imparziale; adozione di misure per una formazione appropriata degli operatori. Hanno destato grandi e comprensibili perplessità le numerose segnalazioni in Val d’Enza di maltrattamenti ai danni di minori (assolutamente sproporzionate rispetto alla popolazione), quasi sempre seguite da una richiesta di archiviazione da parte della Procura, spesso accompagnate da invii in terapia (dando per assodata una condizione di vittimizzazione senza attendere che sui fatti si esprimesse l’autorità giudiziaria) ed in molti casi da un allontanamento preventivo dalla famiglia. Spetterà alla magistratura appurare se vi siano state irregolarità nell’assegnazione degli incarichi ai privati. Questi provvedimenti e questi interventi sono idiosincrasici rispetto agli indirizzi internazionali che prospettano i rischi derivanti da una prevenzione dell’abuso fondata sulla denuncia e sul sospetto. Già nel 2007 la Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza si esprimeva in questi termini nelle sue Linee Guida in tema di abusi sui minori.
Anche Gilbert et al. in un articolo comparso su The Lancet nel gennaio 2009 (“Recognising and responding to child maltratment”) descrivevano i pericoli legati ad un eccesso di segnalazioni: sovraccarico di protezione da parte dei Servizi, inibizione del self-referral da parte delle famiglie per timore della perdita di controllo, discriminazione nei confronti delle popolazioni più vulnerabili ed esposte, induzione di risposte reattive piuttosto che proattive con impedimento della possibilità di sviluppare sistemi di supporto, risorse assorbite dalla necessità di indagare a svantaggio dell’intervento, criteri di segnalazione che presentano un elevato margine interpretativo.
Queste sono le conseguenze che si prospettano quando gli operatori dei Servizi invece che rivolgersi al supporto ed alla relazione d’aiuto per le famiglie in difficoltà rivestono l’improprio ruolo di “sentinelle dell’abuso”, pretendendo di individuare gli indizi rivelatori (spesso, come in questo caso, in maniera distorta e fallace) ed addirittura assumendo provvedimenti di allontanamento capaci di produrre danni psicologici molto severi per i bambini, in spregio ai loro diritti riconosciuti dalle Convenzioni internazionali. Si tratta di provvedimenti che andrebbero assunti solo in casi gravi, nei quali si dimostri l’esistenza di un pericolo concreto ed immediato e quando ogni altro intervento si sia rivelato infruttuoso. Le perplessità sollevate chiamano in causa anche il sovradimensionamento del progetto “La Cura” per la presa in carico dei bambini vittime di abuso e maltrattamento, con annesso impiego di pubblico denaro non giustificato da un’attendibile stima epidemiologica del fenomeno ed anzi con il legittimo sospetto che il fenomeno stesso sia stato gonfiato per legittimare gli investimenti effettuati. Tutto questo finisce purtroppo per danneggiare lo stesso sistema dei Servizi sociali, alimentando una fama di “ladri di bambini” e favorendo una percezione da parte della popolazione dei Servizi stessi non come risorsa, secondo la loro vocazione e funzione originaria, ma come minaccia.
Il terzo aspetto si lega alla formazione degli operatori. In un settore così delicato non dovrebbe essere consentito di impiegare pubblico denaro investendo di responsabilità formative e di supervisione esperti scelti nell’ambito privato senza una certificazione di qualità che risponda a criteri oggettivi. Questo problema riguarda di certo Hansel e Gretel, il cui direttore dott. Foti ha sempre proclamato a gran voce la sua estraneità rispetto agli orientamenti della comunità scientifica che considera anzi contrari all’interesse dei bambini. Capita spesso di constatare come nell’area psicosociale i riferimenti formativi vengano scelti non tanto a partire dalla consistenza scientifica dei contributi proposti ma da orientamenti e da preferenze arbitrarie e soggettive, senza considerare il peso delle evidenze in grado di sostenere e di giustificare le valutazioni e le procedure che vengono a volte “avventurosamente” e più o meno scriteriatamente consigliate. Come è capitato nel caso Angeli e Demoni: errori gravi nelle modalità di ascolto, errori gravi nella identificazione dei segnali interpretati come “indicatori” di abuso, errori gravi nei criteri di allontanamento dalla famiglia. Dispiace che questi cattivi insegnamenti siano stati finanziati con denaro pubblico, con il rischio di screditare anche i tanti operatori che operano con dedizione, competenza e professionalità in un settore al quale sono delegate responsabilità così importanti.
Diverse soluzioni potrebbero essere individuate per ovviare a queste pericolose derive: investire per esempio di compiti formativi solo strutture accreditate, privilegiando la matrice universitaria, ovvero scegliere gli esperti attraverso un regolare bando di concorso per una più attenta valutazione comparativa dei titoli e delle credenziali.
Si deve sperare che questa triste vicenda favorisca, al di là dei suoi esiti giudiziari, un dibattito più sereno e soprattutto libero da ideologie per stabilire ordine, regole e priorità in un settore che chiama in causa i diritti individuali, nel rispetto dell’articolo 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo: Diritto al rispetto della vita privata e familiare – 1. Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza. 2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui.
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