Nulla dice la citata normativa circa un eventuale blocco dei contratti collettivi nazionali di lavoro così come previsti dall’art. 40 del dlgs 165/2001.
Eppure, il blocco delle retribuzioni ha limitato, di fatto, anche la contrattazione nella sua parte normativa. Sembrerebbe che tutto, regolamentazione compresa, sia legato solo al quantum.
Alla luce della citata normativa, art. 40 del dlgs 165/2001, è da ritenersi che il trattamento economico dei pubblici dipendenti debba discendere da norme ad hoc sintetizzate in forma scritta, strutturata in contratto, inoltre, deve essere non soltanto “adeguato” alla quantità e qualità del lavoro prestato (ex art. 36 della Costituzione), ma anche certo e costante, e in generale non soggetto a decurtazioni (tanto più se periodiche o ricorrenti).
L’assenza o il mancato adeguamento delle norme contrattuali a fronte di evidenti cambiamenti strutturali e organizzativi della PA, pone il dipendente in condizione di evidente difficoltà di fronte alla istituzione.
Inoltre, un blocco retributivo di oltre un anno, in assenza di un pari blocco delle tariffe, delle imposte, dei contributi e dei prezzi al consumo, si configurerebbe come una decurtazione stipendiale, stabilita unilateralmente dallo Stato, in assenza di ogni principio di equità, correttezza e della imparzialità prevista dall’art. 97 della Costituzione.
Anzi, in peggio si può aggiungere che il blocco è un tributo mascherato da mancato adeguamento stipendiale.
La Suprema Corte con sentenza num. 102 del 2008 definisce un Tributo come: un prelievo coattivo che è finalizzato al concorso alle pubbliche spese ed è posto a carico di un soggetto passivo in base ad uno specifico indice di capacità contributiva.
Si rileva dunque che il “blocco”, ovvero la decurtazione patrimoniale di cui al comma 1 dell’art. 9 del decreto-legge num. 78/2010, è stato stabilito in via autoritativa senza che rilevi la volontà, in ordine all’an, al quantum, al quando ed al quomodo, di chi la subisce.
Infatti, nulla dice il legislatore su “se” e sul “quanto” il tributo è certo ed una volta stabilita la eventuale doverosità come lo stesso si concilia con l’art. 53 della Costituzione.
Inoltre, lo Stato non avrebbe titolo per modificare con la disposizione in esame i trattamenti economici di rapporti lavorativi di cui non è parte. In altri termini, gli enti pubblici non statali (territoriali o no), nella loro qualità di datori di lavoro, non traggono alcun beneficio economico dal predetto blocco stipendiale.
Si osserva ancora che il salario accessorio, derivante dal bilancio degli enti non statali (territoriali o no), è legato all’autonomia gestionale degli stessi enti ed è utilizzato per la premialità di obiettivi annuali che sono nella piena disponibilità di detti enti e che non rispondono ad alcuna imposizione da parte dello Stato.
Ai sensi dell’art. 36 della Costituzione, “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro…” orbene, essendo avvenuta nell’ultimo quadriennio una diminuzione di oltre 300.000 unità di personale pubblico ed essendo rimasti immutati i servizi alla collettività appare evidente che i lavoratori attualmente in servizio svolgono attività quantitativamente superiore che, in assenza di aggiornamento stipendiale, determina una alterazione dei principi di proporzione e adeguatezza degli stipendi.
Inoltre, essendo i pubblici impiegati al servizio esclusivo della Nazione, ai sensi dell’art. 98 della Costituzione, un blocco retributivo di così lungo periodo equivale ad un impoverimento della categoria che non ha, per legge, altri mezzi di sostentazione, genera un occulto conflitto tra personale e amministrazione pubblica e mina alla radice il buon andamento di cui all’art. 97 della Legge fondamentale dello Stato.
Sotto altro profilo, l’art. 3. Cost. sarebbe violato in considerazione del diverso trattamento riservato per altri redditi da lavoro (autonomo o dipendente privato), non essendo rinvenibile alcuna ratio giustificativa per la quale i lavoratori del settore privato (dipendenti o autonomi) non debbano essere assoggettati a blocchi stipendiali, con corrispondente maggiore introito a vantaggio dell’Erario, tenuto peraltro conto che le retribuzioni del settore privato, specialmente ai livelli dirigenziali e manageriali delle imprese, per non parlare dei professionisti più facoltosi (ad esempio i notai e i farmacisti ma anche i più affermati tra gli avvocati, i medici specialisti, gli ingegneri, gli architetti), risultano enormemente più elevate di quelle del settore pubblico.
La violazione degli artt. 2 e 3 della Costituzione risulterebbe evidente in quanto gli interventi contenuti nella manovra tratterebbero ingiustificatamente in maniera diversa le categorie di pubblici dipendenti, pur a fronte di una identica situazione reddituale.
Dal blocco reddituale sono escluse, vedi comma 4 dell’art. 9 del decreto-legge num. 78/2010, il comparto sicurezza-difesa ed i vigili del fuoco.
Si rileverebbe, altresì, violato l’art. 3 Cost. anche quale espressione del canone di ragionevolezza legislativa.
Infatti, le disposizioni in questione, per fare fronte ad una crisi che grava su tutta la popolazione, impongono un sacrificio rilevantissimo solo ad una categoria ridotta di cittadini, lasciando indenni i redditi e le retribuzioni di tutti gli altri contribuenti, aventi medesima capacità contributiva e di guadagno. L’irragionevolezza di tale intervento legislativo sarebbe vieppiù evidenziato dal fatto che essa verrebbe ad incidere su un trattamento stipendiale, che risponde a principi di natura costituzionale.
Infatti, dall’art. 36 Cost. si rileva che la retribuzione del pubblico dipendente oltre alla proporzionalità rispetto alla quantità e qualità, deve essere “in ogni caso” sufficiente ad assicurare a se e alla propria famiglia un’esistenza libera e dignitosa.
La libertà e la dignità del pubblico dipendente sono sembrate al costituente beni di cui una PA svincolata dal pressante controllo della politica, dunque funzionante, non può fare a meno.
Siamo sicuri che tutta la legislazione, in materia, degli ultimi anni sia stata emanata in questo senso?
L’irragionevolezza delle disposizioni impugnate deriverebbe, inoltre, dall’aver “approfittato” del meccanismo di blocco delle retribuzioni, per ridurre il trattamento economico dei pubblici dipendenti senza il loro consenso ed approfittando di una evidente supremazia di Potere.
Sebbene, infatti non sia interdetto al legislatore di emanare disposizioni atte a modificare in senso sfavorevole la disciplina dei rapporti di durata, queste non devono essere emanate in violazione, non solo dell’art. 3, ma anche dell’art. 2 e 36 della Costituzione. Ciò, in quanto la novazione oggettiva ed unilaterale del rapporto di lavoro oltre a tradursi nel grave scardinamento del principio costituzionale di proporzionalità e adeguatezza della retribuzione, sacrificherebbe la stessa dignità sociale della persona-lavoratore, che si trova soggetto, senza possibilità di difesa (inesistenza del sindacato), ad aggressioni patrimoniali arbitrarie, nel presupposto che a determinarle è lo stesso soggetto (Stato) che opera l’interruzione delle verifiche contrattuali e stabilisce il blocco degli adeguamenti stipendiali, avvalendosi della forza derivante dall’essere ad un tempo datore di lavoro e legislatore.
Indipendentemente dalla natura della norma, in quanto l’aver attribuito la parte predominante dello sforzo “contributivo” ad una minore retribuzione dei dipendenti pubblici, introdurrebbe “forti discriminazioni”, per le seguenti ragioni: la disdetta unilaterale del rinnovo contrattuale riguarderebbe ingiustificatamente una precisa categoria, trascurando del tutto di colpire le ricchezze evase al fisco e persino gli introiti derivanti da rendite ben conosciute, soltanto perché misura più spendibile con l’opinione pubblica e perché comodamente qualificabile come “riduzione di spesa”.
In questo si sottolinea, altresì, che sarebbe consentito al legislatore stabilire una diminuzione delle retribuzioni dei pubblici dipendenti, ma attraverso uno strumento specifico destinato a novellare organicamente e razionalmente l’intera disciplina di settore, regolando “a monte” la modalità ed i presupposti, con appositi moduli di procedura da osservarsi per il caso di eventi eccezionali, che impongano il coinvolgimento della categoria nello sforzo collettivo di risanamento dei conti pubblici attraverso la ben definita “spending review”.
Neppure la motivazione della “crisi economica” sembra sia adeguata a spiegare la ratio dei tagli crescenti, in quanto la norma dovrebbe consentire un risparmio immediato con progressiva mitigazione/riduzione del “taglio” fino a quando la crisi verrà superata.
Del resto, anche a ritenere che l’invocazione della “crisi” costituisca l’effettiva motivazione della manovra non dovrebbe trascurarsi la “diversa sensibilità maturata in ambito europeo”, nell’ambito della quale andrebbe collocata la sentenza del 24 novembre 2010 della Corte di giustizia UE (C-40/10), la quale ha annullato le disposizioni del regolamento 1296/2009 UE, che avevano ridotto l’adeguamento automatico annuale al costo della vita degli stipendi dei funzionari UE, abbattendolo dal 3,7% all’1,85%, ritenendo che la pur nota situazione di crisi economica non potesse essere posta a fondamento di poteri “eccezionali” del Consiglio.
Inoltre, oltre all’attuale danno retributivo, i mancati adeguamenti stipendiali si ripercuoteranno anche in materia previdenziale. Si premette che la rilevanza della questione consisterebbe nel fatto che gli stessi dipendenti pubblici subiranno con certezza assoluta l’applicazione delle disposizioni in argomento al momento della cessazione del rapporto, comunque ed in qualunque tempo essa avvenga.
In ultimo, si può fare riferimento alla sentenza num. 223/2012 la Corte Costituzionale tra l’altro afferma:
…….con riferimento al decreto-legge n. 384 del 1992, è stato altresì sottolineato che il cosiddetto “blocco” dallo stesso stabilito, di cui era evidente il carattere provvedimentale del tutto eccezionale, esauriva i suoi effetti nell’anno considerato, limitandosi a impedire erogazioni per esigenze di riequilibrio del bilancio (sentenza n. 245 del 1997), riconosciute meritevoli di tutela a condizione che le disposizioni adottate non risultassero arbitrarie (sentenze n. 417 del 1996, n. 99 del 1995, n. 6 del 1994).
11.6.— Il meccanismo di adeguamento delle retribuzioni dei magistrati può, dunque, a certe condizioni essere sottoposto per legge a limitazioni, in particolare quando gli interventi che incidono su di esso siano collocati in un quadro di analoghi sacrifici imposti sia al pubblico impiego (attraverso il blocco della contrattazione – sulla base della quale l’ISTAT calcola l’aumento medio da applicare), sia a tutti i cittadini, attraverso correlative misure, anche di carattere fiscale.
Allorquando la gravità della situazione economica e la previsione del suo superamento non prima dell’arco di tempo considerato impongano un intervento sugli adeguamenti stipendiali, anche in un contesto di generale raffreddamento delle dinamiche retributive del pubblico impiego, tale intervento non potrebbe sospendere le garanzie stipendiali oltre il periodo reso necessario dalle esigenze di riequilibrio di bilancio.
Nel caso di specie, i ricordati limiti tracciati dalla giurisprudenza di questa Corte risultano irragionevolmente oltrepassati.
Alla luce di quanto innanzi detto i dipendenti pubblici potrebbero chiedere la incostituzionalità del comma 1 dell’art. 9 del decreto-legge num. 78/2010 convertito, con modificazioni, dalla legge 122/2010 e la ripresa delle procedure negoziali per il rinnovo dei contratti di lavoro, parte normativa e parte retributiva, a partire dall’anno 2010.
Potrebbero anche stabilire che quanto ad essi dovuto in materia di arretrati ed adeguamenti può essere corrisposto, fino a quando persisteranno le attuali esigenze di bilancio, anche sotto forma di Buoni Ordinari del Tesoro.
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