Era il 9 ottobre del 1963, quella sera si giocava la finale di Coppa dei Campioni tra Real madrid e Glasgow Rangers. Nei paesini veneti della valle del Vajont i fortunati che avevano il televisione in casa, si erano radunati per guardare la partita di calcio, gli altri, trascorrevano tra le mura domestiche una delle prime fresche serate autunnali.
Alle 22:45, accade quello che i residenti temevano da anni: la montagna crollò verticalmente sulla diga costruita in prossimitò dei centri abitati di Longarone, Erto e Casso. La furia della montagna si abbatte sull’invaso al punto da innalzare una parete di fango e detriti alta 200 metri.
In pochi, terribili istanti, le comunità del Vajont vengono letteralmente spazzate via da un fiume incontenibile che alla fine, lascerà dietro di sé solo devastazione e morte: in tutto, le vittime contate furono duemila.
Nei giorni seguenti, volontari, militari e semplici cittadini si precipitarono nel Vajont da ogni parte d’Italia per aiutare la popolazione superstite nelle ricerche, mentre si scavava senza sosta nel fango muto e assassino.
Purtroppo, così come gli abitanti che subirono il disastro, anche alle istituzioni era ben noto il rischio che riguardava la costruzione dell’invaso e il suo riempimento. Rapporti continui, a partire dagli anni ’40, avevano informato, da una parte dell’insoddisfazione dei residenti per gli espropri a cui sarebbero stati soggetti in seguito alla realizzazione dell’opera e, all’altra parte, ai continui smottamenti cui l’area naturale circostante la diga era sottoposta.
Così, negli anni precedenti il disastro, si registrarono alcuni interventi “conservativi” al fine di limitare le frane in direzione della diga del Vajont, sempre più sollecitata dalla minaccia di una terra instabile.
Lo Stato, però, decise di proseguire nei suoi intenti: l’opera venne mantenuta in funzione, i ritocchi degli ultimi mesi prima della sciagura dimostrano ancor più colpevolmente l’atteggiamento delle istituzioni, al corrente dei rischi corsi dalla popolazione ma, non per questo, pronta a interrompere il programma infrastruttuale. Ad assecondare la ragion di Stato, sia una scienza faziosa che una politica sorda alle lamentele dei cittadini: emergeva, un po’ alla volta, il quadro di silenzio, di inadempienze, di prove nascoste che avevano segnato la costruzione della diga fino al momento dell’onda fatale.
In questi giorni, assieme alla tragedia, viene commemorata anche Tina Merlin, giornalista dellUnità che aveva anticipato in diversi articoli i pericoli corsi dalla gente della valle del Vajont e per questo fu spesso censurata e oggetto di intimidazioni.
Nel 1968, prese il via il processo che vedeva imputati i maggiori tecnici e dirigenti coinvolti nella realizzazione dell’opera, che verranno condannati a 21 anni di prigione per omicidio plurimo aggravato e disastro colposo. Tra i responsabili, figuravano il direttore dell’Ufficio Lavori del cantiere del Vajont, l’ingegnere capo del Genio Civile di Belluno, direttore dell’Istituto di Idraulica della facoltà di Ingegneria dell’Università di Padova, i componenti della Commissione di collaudo della diga del Vajont. Nei successivi gradi, alcuni imputati riuscirono a scamparla per insufficienza di prove, mentre altre pene vennero ridimensionate.
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