E’ strana la metà di settembre ai bar delle stazioni. Serpeggia dentro agli avventori un umore depresso per il sole perduto, le vacanze finite e un pezzo di luce di vita che se ne è andato e all’esterno invece una animazione nuova, intensa, di una vita che riprende più alacre di prima nonostante il protrarsi mattutino del buio e lo scuro precoce della sera. Ai treni non si vede più la folla sparuta dei turisti in partenza o in arrivo, abbronzati gli uni, pallidi e cerei gli altri, bagnati di sudore dalle loro grosse valigie piene di niente, ma si accalcano studenti e operai freschi e desiderosi di riprendere il lavoro armati di zaini agili e riempiti dell’essenziale. Anche i miei amici sono tornati tutti dalle vacanze e ora non manca nessuno al tavolo interno del bar, il professore, i due dottori ed io, a riprendere i discorsi di sempre, quelli sì un po’ immutabili, come se non sentissero le stagioni, come se la politica, Berlusconi e Napolitano e il compromesso storico fossero eterni. Non sanno o non vogliono sapere che la vita non farà sconti neppure a loro, magari proprio nell’ultimo quarto di luna. Avverto un po’ di stanca fra noi, ma non dura.
La porta esterna si apre ed entra una famigliola discreta, che si accomoda composta intorno a un tavolo. La madre tiene per mano una bambina di pochi anni e con l’altra sorregge una vecchia valigia. Anche il padre ha in mano una valigia di quelle senza ruote, mentre l’altra mano spinge avanti una carrozzella in modo che il bambino più grande che vi sta dentro possa avere il busto e le braccia vicini ai bordi del tavolo. Un’accortezza rispettosa, ma inutile, penso subito, perché il bambino ha una spasticità evidente che gli percorre ogni muscolo del corpo e che gli rende impossibile ogni movimento di prensione. Si accomodano con rispetto e trasmettono rispetto, tanto che, una volta seduti, il barista non gli avvicina subito per l’ordinazione, come fa di solito. Poi il padre si alza e si avvicina a noi. Tra tutti sceglie me per domandarmi con un forte accento del sud un indirizzo della nostra città dove recarsi, e se è possibile raggiungerlo a piedi, perché non hanno troppi soldi per il taxi e poi la carrozzella…Siete fortunati, dico, il luogo è vicino e posso accompagnarvi a piedi, dato che sono in bici. Il padre accetta con un largo sorriso. Il pediatra allora, per curiosità o per professione, non resiste e gli chiede che cosa li ha portati da noi. Enrico, così si chiama il figlio, ha bisogno di cure e di scuole adeguate che al sud nella loro città non ci sono. Un servizio pubblico di neuropsichiatria infantile non esiste, i riabilitatori operano solo nel privato in solitudine e bisogna pagarseli, le classi sono sovraffollate, gli insegnanti di sostegno sono insufficienti e privi della consulenza sanitaria, i bambini con handicap finiscono spesso chiusi in una stanza col bidello. In Emilia-Romagna invece il servizio pubblico esiste ed è efficiente, ci sono altre famiglie che sono venute al nord per le stesse ragioni e gli hanno riferito di aver trovato un altro mondo. Così hanno deciso. Per Enrico hanno lasciato la loro terra e la loro comunità, il lavoro ce l’avevano però lo troveranno anche qui.
Ma la legge pubblica 104 per l’integrazione dell’handicap è una legge nazionale, osserva il professore, la cui applicazione va garantita in ogni angolo del paese. Parole, interviene il pediatra, il padre di Enrico dice la verità. La gente paga le tasse in ogni regione, e al sud paga anche il pizzo, ma la legge 104 è applicata a macchie di leopardo. In particolare l’assistenza sanitaria e riabilitativa ai bambini non è garantita, i servizi di neuropsichiatria infantile in molti territori sono stati smantellati, si è risparmiato sulla pelle dei bambini, e il progetto obiettivo materno-infantile è stato dimenticato da tutti i governi. Bisogna attuare lo sciopero fiscale, conclude il pediatra. Nuove elezioni, nuovo governo, osa lo psichiatra. E’ semplice, propone il professore di filosofia anche lui con la sua disabilità, le nostre associazioni di disabili devono promuovere una Class-Action contro lo Stato. La famiglia ascolta attonita. Possiamo andare, mi dice il padre. Seguitemi, rispondo, ed esco fuori con quella piccola processione, in silenzio, come a un funerale.
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