Con la sentenza 12810, depositata il 23 maggio scorso,
la Corte di Cassazione ha disposto per l’annullamento del licenziamento del dipendente di una compagnia assicurativa. Nella fattispecie, erano venuti meno i posti di lavoro degli agenti impiegati nel settore della consulenza sulla vita, ramo cui l’azienda aveva rinunciato. Ad alcuni dipendenti era stato offerto il
mandato agenziale che prevedeva il mantenimento delle vecchie mansioni in applicazione dell’istituto cosiddetto
“repechage a pari condizioni” per cui nessun interesse era stato leso. Ad uno degli impiegati presso il ramo soppresso dell’attività, invece, l’azienda si era limitata ad offrire un reimpiego ma soltanto nella qualità di collaboratore autonomo. Con la conseguenza che, da un lato, era totalmente stravolto il rapporto lavorativo, cosa di per sé pur valutabile. Dall’altro lato, però, aspetto prioritario e decisivo, si andava ad incidere sulle conseguenze che derivano dalla differenza di condizioni lavorative fra il dipendente e il lavoratore autonomo. La qualità di sub-agente, infatti, comporta la assoluta autonomia rispetto all’agenzia assicurativa e verosimilmente non fornisce alcuna garanzia reale in merito al flusso di lavoro né, di conseguenza, al reddito. La sentenza in oggetto si uniforma alla consolidata giurisprudenza della stessa Corte dove sono indicati costantemente
il principio dell’onere per il lavoratore di fornire gli elementi utili a individuare quale può essere la sua collocazione e per il datore di lavoro di provare l’impossibilità di ricollocazione del lavoratore. Prove necessarie al giudice per decidere avendo un quadro chiaro e dettagliato delle contingenze aziendali. Nelle more del procedimento in oggetto, la compagnia assicurativa aveva focalizzato l’attenzione del giudice sulla circostanza per cui al lavoratore era stata prospettata un’offerta valida ma non era riuscita a fondare adeguatamente i giustificati motivi rispetto alla impossibilità di ricollocazione del dipendente. E questo aspetto è stato ulteriormente aggravato, nell’ambito della fase di valutazione del giudice, dal fatto, di enorme valore, che altri dipendenti coinvolti nella soppressione del ramo avevano ricevuto un trattamento adeguato e non la semplice offerta di essere impiegati in qualità di sub-agente.
Il quadro complessivo
Licenziamento e l’interruzione dei rapporti lavorativi in generale sono materia quanto mai estesa e regolamentata. Molto spesso si tende a considerare ogni genere di licenziamento riferibile al famoso e tanto discusso articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori ma così non è. Il “repechage”, di cui qui si tratta, è collocato in quella grande branca dei licenziamenti individuali derivanti da giustificato motivo oggettivo. Quelli, cioè, non attribuibili alla condotta del lavoratore ma che derivano da “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”, ex art. 3 L. 604/1966, o quelli in cui il lavoratore perda, non per propria colpa, le capacità necessarie per continuare a svolgere le proprie mansioni. I casi di licenziamento per tali ragioni sono stati oggetto di controversie giudiziarie sin dall’entrata in vigore della legge 604/1966 ed è stata proprio la giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione ad elaborare il cosiddetto “obbligo di ripescaggio” per tentare il contemperamento tra gli interessi del datore di lavoro e quelli del lavoratore, in un’ottica solidaristica e di buona fede nei reciproci rapporti, andando in questo modo a rafforzare il principio per cui il licenziamento deve essere l’extrema ratio. Di nuovo, come (troppo) spesso accade nel diritto del lavoro, è il giudice a “creare” soluzioni e possibilità.
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