La Corte d’Appello, a fronte del riconoscimento “di un flusso di telefonate e messaggi da entrambe le parti (…) talmente elevato da far ritenere verosimile l’ipotesi di una relazione tra l’imputato e la vittima” ha comunque considerato una simile sussistenza non in grado “in nessun caso di annullare le dichiarazioni della donna a proposito della violenza denunciata né tantomeno i riscontri oggettivi presi in considerazione”.
I ‘supremi’ giudici, tuttavia, hanno ribaltato il ragionamento fatto in appello giudicandolo univocamente fondato sul reato di violenza sessuale, e dunque omissivo della considerazione “che, così come rilevato dal ricorrente in questa sede, all’imputato erano state altresì contestate le ipotesi di stalking e di sequestro di persona, reati in relazione ai quali la sentenza di appello ha comunque ritenuto di dover confermare la declaratoria di responsabilità”.
Si legge nel testo della sentenza: “Ora, rispetto a questi ultimi reati, i giudici d’appello avrebbero dovuto effettivamente spiegare (…) le ragioni per le quali, in particolare, l’ipotesi di stalking potesse coesistere con una riconosciuta relazione in atto tra l’imputato e la vittima, la quale avrebbe continuato ad inviare al primo messaggi di amore all’insaputa del marito”. Il ribaltamento decisionale della Cassazione, fa dunque discutere dal momento che una condotta persecutoria ed insistente, se reiterata nel tempo e messa in atto con assiduità, genera stati d’ansia e paura anche all’interno di una coppia ‘bilateralmente’ unita.
Da un punto di vista etimologico, il termine britannico stalk è variamente traducibile nella lingua italiana come “caccia in appostamento”, “pedinamento furtivo”, e non bisogna dimenticare che la preda in questione può anche essere un animale già cacciato e magari ora in fuga.
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