Nel contratto di lavoro subordinato, ai sensi dell’articolo 2096 del codice civile, azienda e dipendente possono accordarsi per effettuare un periodo di prova nel corso del quale entrambi valutano la convenienza nel proseguire il percorso lavorativo.
Trattandosi di una sperimentazione, nel corso della stessa è possibile risolvere il contratto senza alcuna motivazione e preavviso.
Le parti possono addirittura interrompere la collaborazione senza alcun atto scritto ma solamente in forma orale.
Una volta terminato il periodo di prova definito all’inizio del rapporto, l’assunzione si considera definitiva e il servizio prestato si computa nell’anzianità del prestatore di lavoro.
Nonostante l’importanza del periodo di prova, tanto per l’azienda quanto per il dipendente, esistono tuttavia delle ipotesi in cui lo stesso può legittimamente non essere presente. Analizziamo in dettaglio le casistiche interessate.
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Indice
Periodo di prova non sottoscritto da entrambe le parti
La giurisprudenza di Cassazione (sentenza del 17 giugno 1982, numero 3699) ha precisato che il patto di prova dev’essere scritto e sottoscritto (firmato) da entrambe le parti (datore di lavoro e dipendente).
Di conseguenza, se l’azienda o il lavoratore non ha firmato l’accordo che dispone lo svolgimento della prova il patto si considera nullo e, pertanto, non apposto.
Le parti, in tal caso, sono quindi libere dalla prova e l’assunzione è definitiva sin dalla data di inizio del contratto.
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Patto di prova non redatto per iscritto
Sempre in virtù del pensiero della Corte di cassazione raccolto nella sentenza numero 3699/1982 il patto di prova dev’essere redatto in forma scritta all’inizio del rapporto di lavoro.
In caso contrario, la prova si considera come non apposta e, pertanto, assente.
Sempre la Suprema corte ha sottolineato che la forma scritta deve sussistere sin dall’inizio del rapporto, non essendo possibile ricorrere a sanatorie successive (Cassazione sentenza 29 luglio 2011, numero 16806).
Prova già effettuata tra le medesime parti
In caso di riassunzione del dipendente, con cui sono intercorsi precedenti rapporti di lavoro tanto a tempo indeterminato quanto a termine, il periodo di prova può essere contemplato soltanto se necessario a sperimentare il lavoratore su mansioni diverse da quelle su cui si è già svolta la prova stessa.
In sostanza deve sussistere la necessità del datore di lavoro di verificare elementi sopravvenuti o ulteriori rispetto alla valutazione compiuta in precedenza.
Si considera pertanto illegittimo (e non apposto) il periodo di prova se la sperimentazione è intervenuta con esito positivo nel corso di un precedente rapporto di lavoro tra le parti avente ad oggetto le stesse mansioni (Cassazione sentenza 1° settembre 2015, numero 17371).
Patto di prova non chiaro
Il patto di prova deve riportare in maniera precisa le mansioni su cui si svolgerà la sperimentazione. Ciò al fine di consentire al dipendente di avere coscienza, sin dall’inizio del rapporto, delle mansioni sulle quali l’azienda valuterà la convenienza a proseguire la collaborazione (Cassazione sentenza 10 ottobre 2006, numero 21698).
L’assenza di indicazioni precise sulle mansioni da svolgere è motivo di nullità del patto stesso, con automatica conversione dell’assunzione in definitiva sin dall’inizio.
Patto di prova escluso dalla contrattazione collettiva
Dal momento che, come vedremo tra poco, la durata della prova è definita (sia pure nel rispetto dei limiti imposti dalla normativa) dalla contrattazione collettiva, quest’ultima può legittimamente prevedere una serie di ipotesi in cui le parti non possono contemplare in sede di assunzione un periodo di prova.
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Patto di prova non apposto per accordo tra le parti
Datore di lavoro e dipendente, nell’ambito delle trattative intercorse prima della stipula del contratto di lavoro e dell’avvio stesso della collaborazione possono accordarsi per non apporre alcun periodo di prova.
In tal caso la decisione opera come condizione di maggior favore rispetto a quella che è la normativa di legge e la contrattazione collettiva.
Da notare che l’omessa previsione di un periodo di prova può essere utilizzata anche come elemento (insieme alla retribuzione offerta) per incentivare il dipendente a siglare il contratto con l’azienda. In quest’ottica la prova si pone sullo stesso livello del riconoscimento di:
- Lavoro a distanza (smart-working);
- Welfare aziendale;
- Fringe benefit;
- Premi di risultato;
e, in generale, di tutte quelle previsioni economico – normative che hanno come fine ultimo la possibilità di attirare talenti.
Patto di prova ridotto
Un’ulteriore possibilità per datore di lavoro e dipendente è quella di ridurre il periodo di prova definito dalla contrattazione collettiva.
A tal proposito è opportuno precisare che la durata massima della prova è fissata dalla legge in:
- sei mesi per tutti i lavoratori (articolo 10, Legge numero 604/1966);
- tre mesi per gli impiegati non aventi funzioni direttive (articolo 4, Regio decreto – legge numero 1825/1924).
Nel rispetto dei limiti di legge descritti, i contratti collettivi nazionali di lavoro fissano la durata della prova, di norma in maniera diversa a seconda del livello di inquadramento.
In conclusione, fermo restando il tetto legale, nel contratto individuale i termini previsti dagli accordi collettivi possono essere:
- ridotti;
- aumentati, se la particolare complessità della mansione svolta rende necessario, nell’interesse tanto dell’azienda quanto del lavoratore, di definire un periodo più ampio rispetto a quello definito dalla contrattazione collettiva.
Tuttavia, se la prova interesse un arco temporale maggiore di quello previsto dall’accordo collettivo applicato e tale prospettiva è sfavorevole per il dipendente, la durata della prova definita nel contratto individuale è sostituita di diritto da quanto fissato dalla contrattazione collettiva.
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Foto copertina: istock/bymuratdeniz
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