L’oggetto del contenzioso, nei confronti del proprietario dell’immobile sottoposto alla misura, corrispondeva all’utilizzo stabile del locale ai fini prostitutivi, favorendo l’esercizio della prostituzione e altresì traendo beneficio patrimoniale dalla percezione dei canoni di locazione. L’ordinanza emessa dal tribunale è stata così impugnata dall’indagato con ricorso per cassazione. La Suprema Corte, esaminando il caso, è giunta ad affermare l’invalidità del riconoscimento dell’opposto orientamento giurisprudenziale, richiamato dai giudici di primo grado (Cassazione, sezione III, 19 maggio 1999, n. 8600), secondo cui “la semplice concessione in locazione di un immobile a un soggetto del quale si sa che vi eserciterà la prostituzione integra il reato di cui all’art. 3, n. 8), della legge n. 75 del 1958, perché costituisce un contributo agevolatore di detta attività, consentendo condizioni più favorevoli sicure per il suo esercizio”.
“Tale orientamento -proseguivano i giudici- ha infatti la conseguenza di allargare eccessivamente l’ambito di applicazione della tutela penale, rendendo punibile qualsiasi aiuto prestato alla prostituta e, in particolare, l’aiuto relativo alle sue esigenze abitative, che solo indirettamente agevolano l’attività di prostituzione; cosicché non sussiste un nesso causale penalmente rilevante della condotta dell’agente e l’evento dei favoreggiamento della prostituzione”. Gli ermellini hanno pertanto deciso di seguire l’altro orientamento della Suprema Corte, il quale ribadisce che la sussistenza del reato di favoreggiamento della prostituzione viene a delinearsi soltanto se si verificano “prestazioni ed attività ulteriori rispetto a quella della semplice concessione in locazione di un immobile ad una singola donna a prezzo di mercato (sezione 3, 23 maggio 2007, n. 35373, Rv. 237400)”. La Suprema Corte, in definitiva, ha optato per l’annullamento dell’ordinanza del tribunale, rimandando per la decisione.
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