La Corte, dopo aver ricordato che le misure adottate negli ultimi anni, “hanno avuto un rilievo finanziario limitato e spesso ad essi non sono stati attribuiti effetti specifici traducendosi al più in strumenti per intervenire sulla composizione della spesa o a cui guardare per giustificare la sostenibilità dei contributi aggiuntivi richiesti agli enti” ha posto l’attenzione sugli “interventi volti a semplificare la stessa impalcatura istituzionale, alla ricerca di una configurazione più efficiente ed economica in un momento di forte tensione per una riduzione della spesa improduttiva”.
A ciò sono stati mirati i provvedimenti sulle unità rappresentative di minori dimensioni, sulle province, sulla revisione delle competenze tra livelli di governo. “Un processo a cui non è estraneo il mutamento di indirizzo registrato sul fronte delle esternalizzazioni dei servizi che si era tradotto, nello scorso decennio, in un forte ampliamento nel ricorso a società controllate dalle amministrazioni stesse”.
Sul tema specifico delle Province, la Corte ricorda che la legislatura che si è aperta dovrà riaffrontare la questione del destino di tale assetto istituzionale e organizzativo, guardando sia ai possibili risparmi di spesa diverse opzioni perseguibili sia, soprattutto, alle migliori modalità di gestione delle funzioni a queste finora affidate.
A tale riguardo, finalmente, la Corte dei Conti – a differenza di gran parte dei politici e dei commentatori sottolinea come “non vanno dimenticati i compiti di tali enti in tema di istruzione pubblica, gestione del territorio e dell’ambiente ma anche in materia di trasporti e sviluppo economico”.
E soprattutto l’analisi sui veri risparmi di spesa – senza considerare i costi di una riattribuzione di competenze o le conseguenza negative in termini di efficienza dei servizi – che deriverebbero dalla abolizione totale delle Province.
Una prima stima – ricorda la Corte dei Conti – dei risparmi conseguibili è stata condotta dal Governo Monti in relazione al ridisegno previsto dal DL 95/2012.
Come è noto, la revisione nelle regioni a statuto ordinario, anche in ragione dell’istituzione delle città metropolitane, comportava una significativa riduzione degli enti: si passava dalla attuali 86 province a 51.
Un ridisegno che mirava a incidere sulle spese correnti: pur non potendosi rilevare significative differenze nella spesa pro capite legate alla dimensione geografica delle province, l’esame relativo alla dimensione misurata in termini di popolazione offriva, nelle stime del Governo, risultati di maggior rilievo, mostrando un andamento della spesa inversamente proporzionale alla dimensione della popolazione amministrata.
L’accorpamento degli enti mirava, quindi, a cogliere le economie di scala rese evidenti dall’analisi statistica.
Come messo in rilievo nello studio condotto dal Ministro Giarda, “al crescere del 10 per cento della popolazione amministrata la spesa corrente cresce del solo 7,7 per cento”, mentre una maggiore superficie non sembra richiedere una maggiore spesa per abitante. In base alla spesa pro capite stimata per le 51 nuove province individuate, il lavoro stimava risparmi di spesa pari a circa 370 milioni.
Utilizzando il modello proposto, che fa esclusivo riferimento alla popolazione ed alla superfice quali variabili esplicative della spesa corrente, si possono stimare i risparmi relativi anche ad una ipotesi ulteriore: l’abolizione delle Province e l’accorpamento delle stesse nell’ambito delle rispettive Regioni.
Ai fini della stima si sono considerate esclusivamente le Regioni a Statuto ordinario e gli impegni di spesa corrente al netto delle spese per interessi per l’anno 2010. I risparmi complessivi di spesa corrente vanno dal 5 per cento nel caso di accorpamento a 51 Province al 10 per cento nell’ipotesi di abolizione delle Province; la riduzione della spesa pro-capite media va rispettivamente dall’8 al 14 per cento.
Nel complesso, i risparmi stimati supererebbero di poco i 750 milioni.
Sia per i profili politico-istituzionali, sia per quelli organizzativi e di economicità, il ridisegno del governo territoriale delle funzioni amministrative appare, quindi, piuttosto complesso nell’attuazione pratica.
Il legislatore ha affidato alle regioni il compito di individuare la dimensione ottimale ed omogena per lo svolgimento in forma associata delle funzioni, ma in effetti il riassetto organizzativo delle funzioni amministrative richiede da parte delle regioni uno sforzo di coordinamento di tutti i livelli di governo locale, comprese le competenze specifiche regionali, affinché si possa pervenire ad una razionale distribuzione delle funzioni che tenga conto dei principi di adeguatezza, prossimità al cittadino, non sovrapposizione o duplicazione delle strutture.
Non mancano tuttavia spinte in controtendenza rispetto all’orientamento verso una semplificazione e razionalizzazione della varietà e diversità delle strutture amministrative (obbligo di adesione ad un unico forma associativa, art. 2, c. 28, legge 244/2008, soppressione dei consorzi di funzione, art. 2, c. 186, legge 191/2009): ne sono un esempio la futura istituzione dei liberi consorzi di comuni in Sicilia in sostituzione delle province o la previsione di accordi consortili per l’acquisizione di lavori, servizi e forniture che dovrebbero configurare modalità gestionali più stabili delle convenzioni”.
Da questa analisi – che proviene dalla Corte dei Conti – risulta evidente l’inconsistenza delle valutazioni semplicistiche di quanti – anche autorevoli esponenti del Governo – insistono nell’indicare nell’abolizione delle Province la soluzione ai problemi del nostro Paese.
Una posizione – di facile consenso presso alcuni illustri opinionisti – che rischia di sottovalutare tutte le questioni connesse ad una tale decisione, in quanto propugnata senza alcuna seria considerazione delle funzioni oggi svolte dalle Province.
Una posizione ancora meno comprensibile se rapportata all’idea – sostenuta dagli stessi – dell’esigenza di un ente intermedio e, soprattutto, dall’idea di accelerare l’istituzione, al posto di alcune Province, delle città metropolitane che, secondo l’attuale legge (vedi art. 18 del D. L. 95/2012), non sono altro che la riproposizione di un ente intermedio, tra Comuni e Regione, che assume in sé le attuali competenze della soppressa Provincia ed altre ritenute di area vasta (metropolitana).
A meno di riforme più ampie rispetto a quelle delineate dal Governo Monti – ma se così fosse non è credibile sostenere l’istituzione delle città metropolitane entro il 2013 – non v’è dubbio che la volontà del legislatore del 2012 è stata quella di attribuire alle Città metropolitane funzioni maggiori di governo del territorio rispetto alle Province, che saranno ridefinite all’esito della procedura di riordino.
Lo si evince chiaramente dall’art. 18 comma 7 della Legge 135/2012, laddove prevede le funzioni fondamentali delle Città metropolitane che si aggiungono a quelle attribuite alle Province: la pianificazione territoriale generale e delle reti infrastrutturali, l’organizzazione dei servizi pubblici, la mobilità e viabilità, la promozione e coordinamento dello sviluppo economico e sociale.
Nella stessa relazione tecnica del Governo, con riferimento all’art. 18, si legge: “La norma che istituisce dieci città metropolitane in luogo delle rispettive Province persegue finalità di efficacia ed efficienza, attraverso il conferimento alle medesime Città metropolitane di funzioni ulteriori rispetto a quelle provinciali, a garanzia anche di una ottimale integrazione delle funzioni”.
Lo Statuto della Città metropolitana dovrà disciplinare, fra l’altro, i rapporti fra i Comuni facenti parte della Città metropolitana e l’esercizio delle funzioni metropolitane, prevedendo le modalità con le quali la Città metropolitana può conferire ai Comuni proprie funzioni, nonché le modalità con le quali i Comuni a loro volta possono conferire proprie funzioni alla medesima.
Si tratta dunque chiaramente di un ente intermedio, proprio come la Provincia, ma con funzioni ulteriori.
Ed allora viene spontaneo chiedersi perché mai nell’area metropolitana di Bologna (998.000 abitanti), Reggio Calabria (566.000 abitanti), Genova (900.000 abitanti), Bari (1.200.000 abitanti) etc. dovrebbe rispondere a finalità di efficacia ed efficienza istituire un ente intermedio tra Regione e Comuni, con le funzioni della Provincia integrate con altre di area vasta, e lo stesso principio non vale per Province come Verona, Treviso, Vicenza, Padova, solo per restare in Veneto, con una media di 900.000 abitanti ciascuna, che andrebbero soppresse con attribuzione delle relative funzioni ai Comuni o alla Regione?
E’ chiaro che la città metropolitana ha senso soltanto se gestisce un territorio omogeneo, con problematiche comuni, non semplicemente per successione universale alla corrispondente soppressa Provincia.
Al contrario l’impostazione seguita dal Governo Monti e confermata dalle dichiarazioni dei Ministri dell’attuale Governo, ci porta a ritenere che il fulcro principale della decisione di istituire le Città metropolitane sia la soppressione delle corrispondenti Province e non un chiaro disegno organico e definito della nuova Istituzione.
Se il costo delle Province da tagliare riguarda gli organi elettivi – e su questa tema ci sarebbe molto da discutere solo se si voglia considerare che i costi della democrazia sono da tagliare – sarebbero sufficienti alcuni interventi correttivi, ad esempio facendo in modo che le elezioni provinciali coincidano temporalmente con le elezioni regionali, così evitando i “costi” di un turno elettorale provinciale autonomo, con disposizioni precise riferite alle ipotesi di scioglimento anticipato di un consiglio provinciale per gestire la transizione fino alla scadenza elettorale regionale.
D’altra parte il Governo Monti non ha avuto alcuna remora a disporre con decreto legge la sospensione delle elezioni provinciali e il commissariamento prolungato di numerose Province!
La Provincia di Belluno – solo per fare un esempio – è commissariata da ottobre 2011 senza una scadenza fissata per il rinnovo degli organi.
Situazione evidentemente inammissibile.
La Corte Costituzionale si pronuncerà il prossimo 2 luglio sulla legittimità costituzionale delle vigenti disposizioni sul riordino delle Province sui ricorsi presentati da varie Regioni. Il TAR del Lazio nei prossimi giorni dovrebbe esaminare i ricorsi sulla mancata convocazione dei comizi elettorali.
E’ chiaro però che il nostro sistema e i rapporti tra Istituzioni non possono regolarsi nelle aule di giustizia.
Il rapporto della Corte dei Conti contribuisce, almeno in parte, a fare chiarezza su due punti almeno:
1) È ineludibile, per qualunque ipotesi di riforma, non partire dalle competenze e dalle funzioni per valutare la dimensione ottimale per il loro esercizio;
2) Le misure adottate ed in cantiere relative al contenimento dei costi di organi e apparati delle amministrazioni locali non determinano significativi risparmi di spesa, soprattutto se rapportati ai costi in termini di efficienza dei servizi, di trasferimenti di competenza, di deficit di rappresentanza democratica.
Si parta da tali valutazioni.
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