Come si ricorderà, tra le misure di contenimento dei costi a carico delle finanze erariali, il decreto sulla spending review ha previsto che gli organi di governo delle società pubbliche, a seconda delle attività e della tipologia di influenza esercitata dall’Amministrazione (partecipazione di controllo o totalitaria), siano composti da non più di tre membri (comma 4) o da un numero compreso tra tre e cinque membri (comma 5). Nel primo caso, due membri devono essere dipendenti dell’Ente pubblico titolare della partecipazione o dei poteri di indirizzo e vigilanza, nel caso di un consiglio di amministrazione formato da cinque componenti, almeno tre invece devono essere i dipendenti dell’Ente. Il comma 4, inoltre, consente altresì la nomina di un amministratore unico, disposizione che, per quanto non espressamente richiamata dal comma 5, la Corte dei Conti ritiene ammissibile anche per le società da questo disciplinate.
Il giornale, a questo proposito, sottolineata l’incompatibilità prevista dal decreto inconferibilità tra gli incarichi dirigenziali e gli incarichi o le cariche in “enti di diritto privato regolati o finanziati dall’amministrazione o ente pubblico che conferisce l’incarico stesso”, giunge alla conclusione che la nomina di un amministratore unico (esterno) sia l’unica soluzione percorribile per non cadere nel sistema di divieti disegnato dal combinato disposto del decreto-legge 95/2012 e del decreto legislativo 39/2013.
Alla luce del tenore delle disposizioni considerate, tale drastico epilogo non convince però appieno. Il decreto in materia di inconferibilità ed incompatibilità definisce infatti gli enti oggetto delle riflessioni del quotidiano, con la descrizione recata dall’articolo 1, comma 2, lettera d, riferendosi a ‹‹le società e gli altri enti di diritto privato, anche privi di personalità giuridica, nei confronti dei quali l’amministrazione che conferisce l’incarico: 1) svolga funzioni di regolazione dell’attività principale che comportino, anche attraverso il rilascio di autorizzazioni o concessioni, l’esercizio continuativo di poteri di vigilanza, di controllo o di certificazione; 2) abbia una partecipazione minoritaria nel capitale; 3) finanzi le attività attraverso rapporti convenzionali, quali contratti pubblici, contratti di servizio pubblico e di concessione di beni pubblici››.
Così individuati gli “enti di diritto privato regolati o finanziati”, risalta all’attenzione dell’interprete la non coincidenza tra la fattispecie individuata dal decreto spending review, laddove si disciplinano gli organi di amministrazione di società a partecipazione pubblica totale o di controllo, e il caso richiamato dall’articolo di stampa in questione, che si riferisce invero a società ed enti che sfuggono piuttosto alla nozione di controllo e nelle quali tuttavia il legislatore ritiene comunque importante limitare la possibilità di assumere incarichi o cariche al proclamato fine di prevenire fenomeni di corruzione ed illegalità nella sfera pubblica.
L’articolo 9 del decreto inconferibilità, al quale il quotidiano economico-giuridico non si riferisce mai espressamente, alimentando peraltro in questo modo un ulteriore dubbio nel lettore chiamato a ragionare sul delicato problema esposto, stabilisce infatti l’incompatibilità tra gli incarichi amministrativi di vertice o dirigenziali (nelle pubbliche amministrazioni) che comportino poteri di vigilanza o controllo sulle attività svolte dagli enti di diritto privato regolati o finanziati e l’assunzione e il mantenimento di incarichi e cariche in enti del medesimo tipo. La formulazione della norma dunque, da una parte, sembra comportare un’ipotesi di incompatibilità non con qualunque incarico di vertice o dirigenziale, ma solamente con quegli uffici che prevedano specifiche attribuzioni e responsabilità nell’esercizio delle funzioni correlate all’ente privato regolato o finanziato; d’altra parte, e qui sorge la maggiore esitazione a concordare con l’opinione del giornale, la disposizione si riferisce invece solamente a quegli enti definiti dall’articolo 1, comma 2, lettera d, del decreto e non a qualunque società a partecipazione pubblica.
Il decreto n. 39 del 2013, per di più, definisce gli “enti di diritto privato in controllo pubblico” con indicazioni diverse e distinte rispetto a quelle utilizzate per gli enti regolati o finanziati, richiamando appunto la nozione di controllo ex art. 2359 cod.civ. o, in assenza di partecipazione azionaria, il potere di nomina dei vertici o dei componenti degli organi. Sembra questa, con maggiore evidenza, la fattispecie alla quale ascrivere le società a partecipazione pubblica totalitaria o di controllo disciplinate dall’articolo 4 del decreto-legge 95/2012. Società, del resto, per le quali sono disposte altre ipotesi di inconferibilità ed incompatibilità che non autorizzano ad inferire la perentoria conclusione in base alla quale l’unica possibilità di gestire tali enti sarebbe rappresentata dalla nomina dell’amministratore unico: vi sarà, piuttosto, pacificamente da considerare l’incompatibilità tra l’incarico dirigenziale e la carica di presidente o amministratore delegato delle società partecipate, secondo l’articolata disciplina recata dal decreto.
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