Tre mesi fa, lo ricorderanno i lettori più attenti, mi ero occupato della vicenda degli abogados; oggi invece è il turno della “nuova” frontiera dell’abilitazione alla professione forense, vale a dire la Romania.
E’ inelegante autocitarsi, ma talvolta diventa inevitabile, e così copiaeincollo qui la chiusura di quel mio pezzo:
E’ giusta, è corretta la via spagnola? No.
E’ umanamente comprensibile? Si.
La riflessione deve partire da qui.
Altrimenti è noia (o paura per il proprio orticello).
In questo caso, peraltro, stando a quel che si legge finora, le cose sembrerebbero un po’ diverse, ma anche profondamente uguali nella sostanza.
Infatti, da quanto è apparso sulla stampa in questi giorni, l’ordine di Tivoli ha
disposto indagini conoscitive relativamente alla legittimità e legalità di iscrizioni come avvocati stabiliti di laureati italiani che hanno conseguito il titolo di “avocat” in Romania.
Il problema, però, è un po’ più sottile: infatti sembrerebbe (il condizionale è d’obbligo) che si tratti non di volenterosi laureati italiani che abbiano effettivamente svolto un percorso formativo in Romania superando poi là l’esame, bensì di soggetti che, rivolgendosi ad alcune “agenzie”, avrebbero ottenuto il titolo utilizzando percorsi “a latere”, evidentemente meno faticosi.
Di mezzo, parrebbe esserci una associazione romena guidata da un soggetto di cui è facile reperire nel web notizie relative a condanne per l’esercizio abusivo della professione forense (in Romania) e che avrebbe di fatto creato un albo “non ufficiale”.
Alcuni, diventati avvocati in Romania in quest’albo, hanno chiesto l’iscrizione negli ordini italiani come avvocati stabiliti (ai sensi del d. lgs. 96/2001, che ha recepito nell’ordinamento italiano la Direttiva 98/5/CE) ed ecco quindi che nei giorni scorsi è giunta la notizia che il Dipartimento degli affari di giustizia di via Arenula ha inviato una richiesta di informazioni alle competenti autorità rumene per accertare se, accanto al percorso legittimo e regolare per diventare avvocato in Romania, esista un percorso alternativo privo di legittimità.
Naturalmente la vicenda non è ancora giunta alla sua conclusione, e vedremo quale sarà.
Il punto però, mi pare sia sempre lo stesso: ha senso un sistema (quello attuale italiano) dove chiunque viene portato su di un palmo di mano fino alla laurea in giurisprudenza, prima, e al certificato di compiuta pratica, poi, per poi ritrovarsi di fronte a quella lotteria che è l’esame di avvocato?
Il mercato è saturo (e tutti leggiamo ogni anno in più occasioni lamentele sul numero degli avvocati in Italia), c’è poco da girarci attorno: vogliamo pensare a un percorso contingentato, a numero programmato, fin dall’università o vogliamo continuare così, “alla carlona”?
La mia personale risposta, l’avete capita.
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